
Le 20 migliori serie del 2020
Il 2020 è stato un anno purtroppo indimenticabile. L’emergenza sanitaria sarà probabilmente un evento cruciale, un evento crocevia negli studi e nei manuali di Storia dei prossimi decenni. Non solo le preoccupazioni sulla sopravvivenza degli individui ma anche del sistema socioeconomico e in esso delle reti produttive e distributive del mondo dell’audiovisivo. Non a caso, il 2020 è stato anche l’anno delle chiusure anticipate (per esempio di Glow), dell’incompiuto, delle proroghe. Tanto da farci domandare quale sarà il futuro del cinema o delle serie.
Con questa rassegna, la redazione di Birdmen continua il lavoro di critica approfondita e di divulgazione, consigliandovi le 20 migliori serie del 2020, con un bonus lynchano a cui siamo, dopotutto, abituati. Una stagione di chiusura, l’unica forse ancora legata, per atmosfera, al 2019: BoJack Horseman. Poi tante novità, tante scoperte (Devs, The Midnight Ghospel); e senza dubbio tante conferme (la meravigliosa quinta di Better Call Saul, la deflagrante seconda di The Mandalorian, la qualità della quarta di The Crown). Insomma, non perdete tempo, queste ultime vacanze natalizie spendetele in qualche recupero. In attesa di un 2021 che già da gennaio si prospetta molto interessante (leggi: Le serie in uscita a gennaio).
Better Call Saul (Quinta Stagione)

Creatori: Vince Gilligan e Peter Gould | Produzione: AMC/Netflix | Disponibilità: Netflix | Episodi: 10 | Minutaggio per episodio: 45-59 min.
Nel 2013, ai tempi dell’ultima stagione di Breaking Bad, dal primo annuncio ufficiale di Better Call Saul ci si aspettava forse una simpatica commedia a tinte crime, un best of delle avventure di Saul Goodman, il divertente avvocato criminale della serie principale. Sarebbe però stata una mancanza di fiducia nell’abile tocco di Vince Gilligan e Peter Gould e, dopo cinque stagioni, Better Call Saul è sì ricca di humour e geniali trovate di Slippin’ Jimmy, ma anche un fantastico drama, personale prima che legale, popolato da personaggi eccellentemente caratterizzati e diretto con una cura stilistica che perfeziona quella del suo illustre predecessore: poche serie ci lasciano estasiati dal significato simbolico e dalla maestosa apparenza di un cono gelato che si scioglie su un marciapiede.
Continua la parabola (auto)distruttiva di James McGill, sempre più avvezzo a seguire il suo lato caotico e opportunista, e il punto di non ritorno nella trasformazione in Saul sembra imminente. La stagione culmina in due tra gli episodi migliori finora, l’odissea nel deserto di Bagman, in cui la serie raggiunge forse la massima vicinanza stilistica e tematica a Breaking Bad, e Bad Choice Road, dove a rubare la scena è ancora una volta la mai abbastanza lodata Kim Wexler di Rhea Seehorn, uno dei migliori personaggi femminili della vasta produzione televisiva attuale. La sesta stagione sarà l’ultima: riusciranno Gilligan e soci a regalarci un altro fantastico finale? Di Lorenzo Zanone. Qui la nostra recensione alla quinta stagione.
BoJack Horseman (Sesta Stagione, pt. 2)

Creatore: Raphael Bob-Waksberg | Produzione: Netflix | Disponibilità: Netflix | Episodi: 8+8 | Minutaggio per episodio: 25 min.
BoJack Hoseman ha chiuso nel gennaio 2020, con il rilascio dei secondi episodi della sesta stagione, contro il volere del suo creatore Raphael Bob-Waksberg – nelle migliori e bibliche intenzioni, se vogliamo. La serie animata, per la matita di Lisa Hanawalt (occupata anche nell’innovativo, per me, Tuca & Bertie, per fortuna salvata da Adult Swim) si è distinta per un calderone di cinismo e sentimento (e non sentimentalismo, insomma quello buono), di realtà e irrealtà (dimensione onirica, allucinata), di satira e comicità (la beniana del ghigno del cadavere, se pensiamo agli ultimi episodi). E, perché no, per un andamento tra narrazione canonica, condotta a regola d’arte, e sperimentalismo. Una serie delle migliori perché complessa e stratificata, decisiva per l’immaginario di un’intera generazione. Ma BoJack Horseman ha chiuso. Ormai è parte dell’Olimpo della serialità contemporanea. Giunto è il momento del recupero, se siete tra i peccatori che non l’hanno mai vista. Di Demetrio Marra. Qui il nostro approfondimento sul quarto cartaceo. Qui le nostre recensioni.
The Boys (Seconda Stagione)

Creatore: Eric Kripke | Produzione: Amazon Prime Video | Disponibilità: Amazon Prime Video | Episodi: 8 | Minutaggio per episodio: 60 min. ca.
Ritorno in grande stile dell’acclamata serie prodotta da Prime Video, per una seconda stagione dal tiro più ampio, che alza il volume di tutti gli elementi che hanno reso The Boys un prodotto tra i più amati degli ultimi anni. Azione, politica, denuncia, romance, violenza e intrighi raggiungono in questa stagione picchi inaspettati di dilatazione e rappresentazione, esasperando la formula fino al rischio di stancare, ma vincendo la scommessa della continua sorpresa, proponendo agli spettatori una run dal colpo di scena efficace anche se reiterato. Si può dire che manca – più che nella prima stagione – la componente supereroistica (mantelli e poteri esclusi, ovviamente), ma il punto di The Boys è proprio quello: in questa seconda stagione i Seven interpretano senza sforzo loro stessi persino nella messa in scena di una produzione cinematografica – tremendamente efficace nel parodiare i blockbuster DC -, in un gioco delle parti che cancella man mano ogni possibile correlazione tra “potere” e “responsabilità”. La seconda stagione di The Boys approfondisce i personaggi sia in verticale che in orizzontale, acuendone i legami e lasciando che proprio questi diventino il motore di un racconto tanto squisitamente fumettistico, quanto sapientemente audiovisivo, senza perdere mai l’occasione di farsi allegoria del mondo extradiegetico: guardando la miniserie dietro le quinte (Prime Rewind: inside The Boys, capolavoro di autonarrazione) appare sempre meno un caso la fine della stagione a ridosso con le elezioni statunitenti. Di Nicolò Villani. Qui la nostra recensione alla prima stagione.
The Crown (Quarta Stagione)

Creatori: Peter Morgan | Produzione: Netflix | Disponibilità: Netflix | Episodi: 10| Minutaggio per episodio: 47-61 min.
Giunto ormai al termine del secondo biennio seriale, e pronto ad incoronare una nuova attrice-regina, il gioiellino di Peter Morgan regala al pubblico forse la stagione migliore dello show anglo-statunitense. Mentre pone fine al regno di un’impeccabile Olivia Colman, The Crown accende i riflettori del suo para-reale universo narrativo su altre due figure femminili parallele, che aprono e chiudono l’arco temporale di riferimento: dal primo incontro del Principe Carlo con Diana Spencer (Emma Corrin) al 1990, anno delle dimissioni del primo ministro Margaret Thatcher (Gillian Anderson). Nel pieno rispetto del suo stile quasi fotogenico, Morgan lavora alla sua fenomenologia del potere facendo di volti e ambienti superfici-materia che la corona plasma a sua immagine e somiglianza. Alla regia estetica si accompagna un impeccabile montaggio, un lavoro di composizione figurativa e simbolica che fa da vera fucina per l’operazione demiurgica di Morgan. L’elaborazione del potere come forza motrice, e non incarnato in una figura ancillare, raggiunge qui il suo punto più alto, e permette all’autore di fare della famiglia reale inglese puro “modello” per dare forma ai propri esemplari. I suoi sono reali-tipo, figure archetipiche in grado di tenere il pubblico attaccato allo schermo anche per un biopic che la Storia ha già spoilerato. Di Sandra Innamorato. Qui le nostre recensioni.
Devs

Creatore: Alex Garland | Produzione: Hulu | Disponibilità: Inedita in Italia | Episodi: 8 | Minutaggio per episodio: 50 min.
Alex Garland è considerato uno dei più grandi sceneggiatori e registi di fantascienza della nostra generazione; ha diretto i lungometraggi Dredd (2012), Ex Machina (2015) e Annientamento (2018), oltre ad aver scritto la sceneggiatura di 28 giorni dopo (Danny Boyle, 2001) e Sunshine (Danny Boyle, 2007). Non sorprende dunque che Devs, la miniserie da lui creata, scritta e diretta – ancora inedita in Italia – assomigli più a un film di 8 ore che a un vero e proprio prodotto seriale. La pietra di paragone più evidente è quella di Westworld, dal momento che Devs ne condivide il genere di riferimento e la tematica principale, ossia la questione del libero arbitrio. Un quesito eterno che non ha trovato una risoluzione univoca anche di fronte alle nuove scoperte in campo fisico e neuroscientifico; e proprio a queste conoscenze attinge Garland per creare una serie di dialoghi fittissimi, la vera spina dorsale della sua opera. L’atteggiamento generale che viene richiesto allo spettatore è quello della contemplazione e della riflessione, al netto di alcune accelerazioni improvvise e di momenti al limite del thriller psicologico. Ci troviamo di fronte a un’opera cerebrale e ipnotica, contraddistinta da una regia a combustione lenta, dominata da lunghe carrellate, da un crescente e caotico controcanto sonoro e dalla fotografia algida di Rob Hardy. C’è un che di mistico e ineluttabile nell’incedere di Devs, come il destino a cui vanno incontro i suoi personaggi, che sarà capace di tenere incollati al piccolo schermo gli spettatori più abituati a ritmi cinematografici. Di Stefano Bresciani. Qui il trafiletto sul cartaceo.
Dispatches from Elsewhere

Creatore: Jason Segel | Produzione: AMC | Disponibilità: Amazon Prime Video | Episodi: 10 | Minutaggio per episodio: 45-50 min.
Partendo da un vero alternate reality game che è stato capace di reclutare più di 10.000 giocatori e dal documentario The Institute (Spencer McCall, 2013) ad esso ispirato, Jason Segel crea una caccia al tesoro sia per i suoi protagonisti che per il pubblico. Quattro sconosciuti (lo stesso Segel, Eve Lindley, Sally Field e André Benjamin), incuriositi da dei volantini trovati per strada, vengono coinvolti dall’Elsewhere Society in un’indagine per scoprire le vere intenzioni del Jejeune Institute. Dovrebbe essere un semplice gioco, un mezzo per sfuggire dalla monotonia di tutti i giorni, ma presto scoprono che è tutt’altro che finzione.
Dispatches from Elsewhere non è esattamente la serie che uno si sarebbe aspettato di vedere da parte di Jason Segel, il dolce Marshall di How I Met Your Mother. Non ha nessun elemento in comune con le comedy che lo hanno visto protagonista in passato e forse ha persino poco della serialità come viene intesa tradizionalmente. Dispatches from Elsewhere ha, nella sua essenza, un obiettivo: celebrare le storie, sottolineando la loro vitale importanza per la felicità umana. Per questo, rompendo la quarta parete, la serie chiede spesso al pubblico di dimenticare i confini dello schermo televisivo e di farsi tutt’uno con i protagonisti. Il progetto di Segel è quello di trasformare Dispatches from Elsewhere in una serie antologica e non possiamo fare altro che sperare diventi realtà. Di Giada Sartori.
Hunters

Creatore: David Weil | Produzione: Amazon Prime Video | Disponibilità: Prime Video | Episodi: 10 | Minutaggio per episodio: 60-90 min
Amazon Prime Video punta su dettagli, lunga durata e una straordinaria campagna pubblicitaria per un concept affascinante, ma pericoloso. La trama si presta per accogliere peculiarità del cinema di serie B, declinazioni tarantiniane, supereroi e comics, tutto dentro una macchina narrativa che non perde mai ritmo ed efficacia. Alla fine degli anni ’70, i nazisti scappati al processo di Norimberga sono ormai parte integrante della società americana, sfruttando identità false e posizioni capillari nei ruoli più strategici dell’economia statunitense. Meyer Offerman, ebreo deportato e sopravvissuto ad Auschwitz, crea un gruppo epilettico di cacciatori con lo scopo – ossessivo – di scovarli e ucciderli tutti. L’ingresso di Jonah, ragazzo di origine ebraica rimasto solo al mondo dopo la morte della nonna amica di Offerman, innesca la narrazione e inserisce progressivamente sempre più domande su chi sono davvero i cattivi di questa scacchiera. Nonostante la critica non sia stata concorde sulla buona riuscita del prodotto e le recriminazioni mosse dall’Auschwitz Memorial ne abbiano macchiato lo sforzo produttivo, Hunters ha il merito di donare al pubblico una grande performance attoriale dell’intero cast, guidato da Al Pacino che si presta nuovamente alla serialità con un personaggio magistralmente interpretato e una narrazione mai abitudinaria. Da vedere in lingua originale. Di Giulia Paganelli. Qui la recensione alla serie.
Inside No. 9 (Quinta Stagione)

Creatori: Reece Shearsmith e Steve Pemberton | Produzione: BBC 2 | Disponibilità: Inedita in Italia | Episodi: 6 | Minutaggio per episodio: 28-30 min.
Giunta alla quinta stagione, la serie antologica ideata dal duo comico Reece Shearsmith e Steve Pemberton, purtroppo ancora inedita in Italia, si conferma tra i prodotti televisivi più creativi e brillanti in circolazione. Scrittura ispiratissima, performance eccellenti, grande varietà di temi, generi e ingegnosi colpi di scena sono gli ingredienti che hanno reso Inside No. 9 uno show molto popolare nel Regno Unito, tanto da guadagnarsi anche una citazione nel recente Dracula, sempre BBC. Il ciclo di episodi andato in onda nel 2020 è stato accolto benissimo dalla critica ed è valso alla serie l’immediato rinnovo per altre due stagioni. Già la première, The Referee’s a W***er, esilarante rappresentazione dei conflitti interiori ed esteriori di un arbitro di calcio pochi minuti prima di una partita di fondamentale importanza, rivela l’eccezionale capacità della serie di unire dialoghi frizzanti e approfondimento psicologico. La vena più sperimentale dello show emerge con forza in episodi come Love’s Great Adventure, storia di una crisi famigliare raccontata seguendo le caselle del calendario dell’Avvento, e Thinking Out Loud, in cui sei personaggi si confessano di fronte ad una videocamera senza sapere che i loro destini sono indissolubilmente legati. La palma di miglior episodio spetta però a Misdirection, piccolo gioiello di tensione e suspense ambientato nel mondo dell’illusionismo. Passano gli anni, ma in tv continua a non esserci niente come Inside No. 9. Di Fabio Bazzano. Leggi anche il trafiletto sull’ultimo cartaceo.
Lovecraft Country

Creatore: Misha Green | Produzione: HBO | Disponibilità: Sky – NowTv | Episodi: 10 | Minutaggio per episodio: 53-68 min.
Partendo dall’omonimo romanzo di Matt Ruff, Lovecraft Country guarda alle opere di H.P Lovecraft con occhio critico per decostruirle e problematizzarle. Al centro della narrazione troviamo Atticus Freeman (Jonathan Majors), un giovane uomo afroamericano che attraversa gli Stati Uniti nel pieno degli anni ’50 alla ricerca del padre scomparso. Al suo fianco in questo viaggio tra gli orrori della Segregazione ci sono lo zio George (Courtney B. Vance) e l’amica Letitia (Jurnee Smollett, reduce dal ruolo di Black Canary in Birds of Prey).
Negli ultimi anni il genere horror, specie per quel che riguarda il panorama americano, ha subito una vera rivoluzione, diventando più che mai strumento per mostrare gli orrori della black experience. Uno dei capostipiti del fenomeno è sicuramente Jordan Peele, che, dopo le esperienze alla regia e sceneggiatura in Get Out e Us, troviamo in Lovecraft Country come produttore. Se il suo nome può essere un biglietto da visita non indifferente, questo non deve portarci a sottovalutare la creatrice Misha Green che, con questa serie, si afferma come una delle voci più interessanti del panorama odierno. Con Lovecraft Country è stata capace di una riflessione potente, coraggiosa e necessaria sui veri mostri della nostra società, aggiornando l’immaginario horror senza però perdere di vista la tradizione del genere. Di Giada Sartori. Qui la recensione alla serie.
The Last Dance

Creatori: Michael Tollin | Produzione: Netflix | Disponibilità: Netflix | Episodi: 10 | Minutaggio per episodio: 48-50 min.
L’ultimo ballo di Micheal Jeffrey Jordan è un tiro dal mid-range nell’austero Utah. Prima della stagione ’97-’98 ci sono stati 5 titoli NBA, 4 titoli di MVP di regular season, 5 come MVP delle finali, 9 come miglior marcatore della NBA.
In un paese cui non è culturalmente propria una forma di racconto mitologico classico — quella nativa è stata sostanzialmente spazzata via insieme a coloro che la tramandavano o rinchiusa insieme agli ultimi superstiti in qualche zona desertica vicino ad un canyon per fare folklore — lo sport ha sempre rappresentato una grande occasione di narrazione morale a beneficio collettivo.
Jason Hehir dirige per l’accoppiata Espn/Netflix una serie documentario che definisce dei personaggi, ci fa empatizzare con loro e ce ne fa detestare degli altri, utilizzando uno schema di scrittura piuttosto canonico (si pensi a Christopher Vogler o Robert McKee tra gli altri), ma spesso vincente per questo tipo di prodotti di massa.
L’eroe e i suoi aiutanti devono vincere contro le forze del male e il male è di volta in volta più forte e all’apparenza impossibile da sconfiggere. Il male è fuori ed è il mondo, che si palesa in diverse forme incarnato dalle franchigie che puntualmente i Bulls sconfiggono. È nel tuo sistema relazionale, nei panni del tuo General Manager Jerry Crause che ha deciso di smembrare la squadra più vincente della storia NBA (e in The Last Dance non ci interessano tanto le sue ragioni, perché è semplicemente “Il cattivo”) e poi infine il male sei tu stesso, con i tuoi lati oscuri e le tue idiosincrasie: il gioco d’azzardo, la competitività compulsiva.
Forse però se sei MJ i tuoi lati oscuri non è necessario tenerli a bada, servono a renderti quello che sei: un indimenticabile vincente e un personaggio ancor più interessante da raccontare in una serie Netflix. Di Gianni Pigato. Qui la nostra recensione.
The Mandalorian (Seconda Stagione)

Creatori: Jon Favreau | Produzione: Disney+ | Disponibilità: Disney+ | Episodi: 8 | Minutaggio per episodio: 31-52 min.
A un anno dalla fine negli USA della prima stagione, arriva la seconda scoppiettante run di The Mandalorian, vero tributo d’amore da parte della gestione Disney nei confronti di tutti i fan di Star Wars. Inizialmente dal respiro più antologico, con quattro episodi fortemente radicati nell’ibridazione di genere (dal western all’horror sci-fi più classici), la seconda metà di questa stagione porta gli spettatori in un viaggio spaziotemporale all’interno della Galassia creata da George Lucas, con il ritorno di personaggi, oggetti e situazioni che fanno di questo prodotto il collante ideale di una tenuta narrativa che ha rischiato – con la trilogia sequel inaugurata nel 2015 – di dissolversi col suo protrarsi. The Mandalorian diventa quindi anello di congiunzione capace di colmare vuoti, orientare discorsi e far sperare in una nuova ondata di prodotti a marchio Star Wars che sappiano regalare immaginari grandiosi, come nella più squisita tradizione della LucasFilm. A tutto questo, si aggiunge la vocazione sperimentale che The Mandalorian presenta nel comparto tecnico e filmico, presentando un’immagine coerente e consapevole, frutto di nuovi modi di pensare il mezzo virtuale – in stretto dialogo con la materia artigianale – e debitrice di corpi attoriali in grado di vestire i panni e riempire gli spazi di personaggi inediti e iconici a un tempo. Poi c’è Baby Yoda – pardon, Gorogu – che colma ogni inquadratura di quello stupore sincero da troppo tempo dimenticato. Di Nicolò Villani. Qui le nostre recensioni episodio per episodio.
The Midnight Gospel

Creatori: Pendleton Ward e Duncan Trussell | Produzione: Netflix | Disponibilità: Netflix | Episodi: 8 | Minutaggio per episodio: 20-36 min.
Un trip che lascia sconvolti, ma che vale la pena di intraprendere. The Midnight Gospel combina la natura profondamente personale dell’ascolto dei podcast con il potere coinvolgente dell’animazione. La serie nasce dall’incontro tra Pendleton Ward, noto per Adventure Time, e il comico Duncan Trussell, autore del podcast The Duncan Trussell Family Hour. Le clip audio del podcast di Trussell prendono vita con un’animazione surreale, onirica, sovrastimolante. Il protagonista, Clancy, è uno spacecaster: in ogni episodio esplora mondi diversi grazie a un simulatore dalla simbolica forma di vagina, e dialoga di nuove prospettive e filosofie con i personaggi intervistati. La serie è uno sguardo introspettivo alla vita, alla morte, alla meditazione e alle esperienze psichedeliche; il viaggio di Clancy è sia una ricerca di significato che un disperato tentativo di fuggire dalla realtà. La natura ibrida della narrazione, in cui tra le immagini e l’audio sembra mancare una corrispondenza, chiede allo spettatore di affrontare una grande sfida sensoriale, nel tentare di incrociare il visivo e l’uditivo alla ricerca di un senso. I nostri occhi sono bombardati da immagini folli e assurde, mentre il nostro cervello cerca di riflettere sui dilemmi esistenziali veicolati dalle parole. Forse, quello che viene davvero chiesto allo spettatore è semplicemente di abbandonarsi al viaggio. The Midnight Gospel non beneficia esattamente dell’approccio binge-watching. È necessario prendersi del tempo per elaborare ogni episodio, e lasciare che il caos sensoriale risuoni con le nostre esperienze personali. Di Maria Francesca Mortati. Qui la nostra recensione.
Trivia: The Midnight Gospel è stata rilasciata su Netflix il 20 aprile, data del compleanno di Trussel e della festa della cannabis (4/20).
The New Pope

Creatore: Paolo Sorrentino | Produzione: HBO | Disponibilità: Sky – Now Tv | Episodi: 9 | Minutaggio per episodio: 50-60 min.
Sequel di The Young Pope, The New Pope si mantiene in continuità con la prima stagione, uguagliandola e forse superandola. Il Vaticano è un regno e come tale ha bisogno di un capo, con tutto ciò che ne consegue: intrighi e fazioni orchestrano celate (ma non troppo) lotte per il dominio, condotte da protagonisti che non sono così distanti dal nostro mondo. Ai cardinali di Sorrentino piace il calcio, amano vestirsi alla moda e adorano Charlize Theron e Marilyn Menson. La new entry di un cast meravigliosamente assortito è John Malkovich, che veste i panni di Sir Brannox, nobile cardinale inglese fragile e dolce, reso costantemente malinconico da un passato oscuro, con cui non è in grado di pacificarsi. Il nuovo papa dovrà confrontarsi con il predecessore, il volitivo Lenny Belardo (Jude Law) in una narrazione caratterizzata da bassa densità narrativa e scene evocative descritte con una ricerca maniacale di simmetrie ed equilibri in perfetto stile Sorrentino: glamour ma anche incredibilmente lirico, surreale, onirico ma anche concreto nel rappresentare i drammi di quelli che prima di tutto sono esseri umani e, non da ultimo, sostenuto da una colonna sonora incredibile che include pop, dance e Paolo Conte, The Young Pope si conferma non solo come uno dei prodotti seriali più interessanti del 2020 ma anche come una delle migliori creazioni del registra napoletano. Di Giulia Caccialanza. Qui la nostra recensione.
Normal People

Creatore: Sally Rooney, Alice Birch | Produzione: BBC Three, RTÉ One, Hulu | Disponibilità: Starz Play | Episodi: 12 | Minutaggio per episodio: 23-34 min
Sguardi che si cercano, silenzi imbarazzati, conversazioni impacciate. Connell vuole Marienne, ma non ne è sicuro, come tutto nella sua vita. Marienne vuole Connell, ma non sa se può bastargli, come tutto nella sua vita. L’adolescenza e i vent’anni attraversati dall’unica certezza di due corpi che si bramano tra le lenzuola sudate. E la generazione millennial ebbe il suo romantic drama definitivo.
BBC e Hulu uniscono le forze per portare a schermo l’adattamento del secondo romanzo di Sally Rooney, giovane fenomeno editoriale, qua anche in veste di sceneggiatrice. Al rodato regista indie Lenny Abrahamson (Frank, Room) il compito di inquadrare una Irlanda a metà tra il calore di un filtro Instagram e la fredda incomunicabilità dei suoi protagonisti, due genietti di estrazioni diverse che collidono nel comune disagio della ricerca di una apparente normalità.
Dodici capitoli da mezz’ora a comporre il mosaico di una storia d’amore che parte dalla fine delle superiori per arrivare alla conclusione dell’università. Ogni episodio riparte dal precedente con una ellissi temporale ancora più forte, la stessa violenza con cui Connell e Marienne si lasciano per poi ritrovarsi bruscamente. Ed è incredibile come Normal People raggiunga l’universalità del loro sentimento proprio attraverso queste distanze, nella messa in scena del travolgente desiderio dell’uno per l’altro che le attraversa. Di Mattia Napoli. Qui la recensione alla serie.
The Queen’s Gambit

Creatore: Scott Frank | Produzione: Netflix | Disponibilità: Netflix | Episodi: 7 | Minutaggio per episodio: 46-68 min.
Basata sull’omonimo romanzo del 1983 di Walter Travis, la serie ci racconta della scalata di Beth Harmour (un’incredibile Anya Taylor-Joy) verso l’olimpo degli scacchi, un percorso tutt’altro che facile, minato da tendenze autodistruttive, solitudine e un contesto, quello del boom economico degli anni Sessanta, fortemente maschilista, in cui la protagonista riesce a farsi strada con implacabile determinazione. In sette episodi vediamo partite su partite in una formula reiterata che non ci annoia mai, capace di intrigare anche chi di questo complesso gioco non ne sa nulla e lo conferma l’impennata di vendita di scacchiere: Scott Frank riesce a rendere interessante e adrenalinico ogni scontro, non rinunciando ad una dose di realismo, grazie anche alla consulenza del campione Garry Kasparov. A rendere questa serie uno dei migliori prodotti 2020 concorrono una solidissima scrittura di base, un ritmo narrativo sempre alto, una sceneggiatura ferrea e coerente che ci invita ad un binge watching selvaggio, un comparto visivo di tutto rispetto e una recitazione penetrante e di altissimo livello. I lacrimoni, inclusi nel pacchetto, la rendono imperdibile. Di Giulia Caccialanza. Qui la nostra recensione.
Rick and Morty (Quarta Stagione, pt. 2)

Creatori: Justin Roiland, Dan Harmon | Produzione: Adult Swim | Disponibilità: Netflix | Episodi: 5 | Minutaggio per episodio: 22 min.
Metà della quarta stagione mancava all’appello di dicembre 2019. A maggio 2020, l’attesa è stata pienamente ripagata, con cinque episodi ancora una volta all’apice dell’inventiva che finora ha contraddistinto la serie di Adult Swim. Tornano ovviamente il citazionismo e il gioco ironico con la fantascienza, impreziosito da storie di incredibile maturità. Su tutte, troneggia la metanarrazione di Never Ricking Morty, in cui la narrazione stessa diviene un nemico da sconfiggere. Nel finale, spazio anche a una trama orizzontale di cui avevamo sentito la mancanza nella prima tranche. Insomma, Roiland e Harmon sono saliti in cattedra da parecchio ma continuano a tenere alta l’asticella con pochi e trascurabili inciampi, un’animazione estremamente vitale e una scrittura tra le più elaborate che sia dato vivere nel panorama seriale. È possibile fermare Rick and Morty? Di Lorenzo Botta Parandera. Qui un nostro articolo sulla serie.
Tales from the Loop

Creatore: Nathaniel Halpern | Produzione: Amazon Prime Video| Disponibilità: Amazon Prime Video | Episodi: 8 | Minutaggio per episodio: 50-57 min
Otto racconti fantascientifici ambientati nella campagna degli anni Sessanta che ruotano come particelle attorno all’acceleratore denominato “Loop”, tra viaggi nel tempo, robot e cyborg e dimensioni parallele: la serie originale di Prime Video, tratta dalle magnifiche illustrazioni di Simon Stålenhag, ci ha stupito per la sua capacità di creare una narrazione stratificata, interconnessa e affascinante, semplicemente animando le opere dell’artista svedese. Ogni episodio è una storia autoconclusiva che però porta i semi di vicende successive: non è raro che i protagonisti di alcuni episodi siano fugaci comparse in capitoli precedenti, restituendo l’esperienza di un’immersione in una cittadina rurale dell’Ohio che pian piano prende vita e produce misteri davanti ai nostri occhi. Non tutti i capitoli sono dei gioielli, sia chiaro, ma di ognuno resta la bella e fredda fotografia, l’atmosfera sospesa delle storie raccontate e le immagini che gli sceneggiatori hanno saputo estrarre dalle visioni di Simon Stålenhag. Di Lorenzo Botta Parandera. Qui la nostra recensione.
The Third Day

Creatori: Felix Barrett e Dennis Kelly | Produzione: HBO | Disponibilità: Sky Atlantic | Episodi: 6 (+1 speciale) | Minutaggio per episodio: 57–61 minuti; 715 minuti (speciale)
Tra le novità più attese dell’anno, The Third Day ha diviso le opinioni rivelandosi un prodotto di non semplice fruizione. Se da una parte lo show si inserisce in maniera abbastanza convenzionale in quel filone folk horror recentemente tornato di moda (si pensi a Midsommar), dall’altra possiede una struttura decisamente sperimentale e originale. La serie è divisa in due blocchi: nel primo, Estate, Sam (Jude Law) capita per caso nella misteriosa isola di Osea (incredibile location realmente esistente), abitata da una piccola comunità dedita ad uno strano culto ancestrale; nel secondo, Inverno, Helen (Naomie Harris) arriva sulla stessa isola per una vacanza con le sue figlie e dovrà confrontarsi con i terrificanti misteri del luogo. I due percorsi, come presto si capirà, sono legati, e condurranno ad una spirale di follia, allucinazioni, violenti rituali e oscuri simbolismi religiosi. C’è però anche una terza parte a fare da ponte, Autunno, la più intrigante: una performance teatrale di dodici ore girata in piano-sequenza e mandata in onda in diretta sulla pagina Facebook dell’HBO. Un esperimento di transmedialità ideato per far immergere il pubblico nel mondo oscuro e perverso della storia, abbattendo la quarta parete. Nell’insieme, un’esperienza di visione complessa e a tratti estenuante, impreziosita però da un cast in stato di grazia, da un apparato visivo e sonoro a dir poco sontuoso e da un indefinibile senso di tensione latente che finisce per insinuarsi sottopelle. Di Fabio Bazzano.
Unorthodox

Creatori: Anna Winger e Alexa Karolinski | Produzione: Netflix | Disponibilità: Netflix | Episodi: 4 | Minutaggio per episodio: 52-55 min
Libero adattamento dell’autobiografia di Deborah Feldman Unorthodox: the Scandalous Rejection of my Hasidic Roots, Unorthodox è la miniserie targata Netflix che ha portato sul piccolo schermo la vita, le tradizioni e i rituali della comunità ebraica ultra-ortodossa di Williamsburg, NYC. La serie, ideata, scritta e diretta da un team tutto al femminile, racconta la storia di Esty (interpretata superbamente da Shira Haas) che, costretta ad un matrimonio combinato e infelice, trova il coraggio di lasciare tutto e fuggire a Berlino.
Unorthodox si sviluppa su due linee temporali diverse, mettendo in continua contrapposizione due mondi, quello chiuso e rivolto al passato della comunità chassidica di Williamsburg, ricostruito con un’attenzione filologica degna di nota, e una Berlino giovane, aperta e multiculturale, che è però responsabile dell’Olocausto che ha decimato la comunità della protagonista. Nella sua disperata fuga alla ricerca della libertà, Esty giunge paradigmaticamente alla fonte del trauma del suo popolo e qui comprende che non è possibile trovare se stessa e la propria voce rinnegando completamente il passato. Con grande intensità Unorthodox riesce a tratteggiare, in appena 4 episodi, la parabola di una giovane donna che mette in discussione le proprie radici, per poi riappropriarsene in un percorso personalissimo, libera da ogni vincolo e costrizione. Di Giorgia Giulia Gamberini. Qui la nostra recensione.
We are who we are

Creatore: Luca Guadagnino | Produzione: HBO e Sky Atlantic | Disponibilità: Sky | Episodi: 9 | Minutaggio per episodio: 49-75 min.
We are who we are è il nuovo lavoro di Luca Guadagnino per il piccolo schermo prodotto da HBO e Sky Atlantic, dopo i successi cinematografici di Call me by your name e Suspiria. Un teen drama i cui protagonisti, Fraser (Jack Dylan Grazer) e Caitlin (Jordan Kristine Seamón), ricercano la loro identità, come Lancillotti moderni, nella geometrica base militare di Chioggia, che incarna il non-luogo, o luogo di spersonalizzazione, dell’America conservatrice contemporanea. È una serie, a detta dello stesso regista, che vuole mostrare dei comportamenti, grazie ad uno sguardo che empatizza con la percezione del mondo dei giovani personaggi attraverso ralenti e freeze-frame shot, strumenti per compiere l’immersione nel presente in cui è ritagliata la loro educazione sentimentale. A scandire la narrazione ci pensa anche la colonna sonora curata da Devonté Hynes (Blood Orange) e l’eclettismo dei brani scelti da Guadagnino, i quali danno un ritmo ora lento ora accelerato al processo di rottura delle rigide dicotomie di genere, al percorso inaspettato della sessualità libera da vincoli culturali e religiosi. In fin dei conti, Guadagnino esorta fin dal titolo: siamo chi siamo, nient’altro, e al di fuori c’è solo materia che s’attrae e si respinge, senza regole e norme. Di Luca Mannella. Qui la nostra recensione.
+ Bonus
David Lynch Theatre

Artista, anchorman, voce dagli abissi. Quest’anno, David Lynch ha dato i numeri: che fossero cifre in gradi Fahrenheit o estratte come al lotto su palline di plastica, il regista di Twin Peaks, Mulholland Drive, Eraserhead e via dicendo accompagna dallo scorso maggio i giorni di lockdown del mondo intero dal suo canale YouTube (David Lynch Theatre). Un teatro digitale, per le dimensioni, dai 5 ai 15 pollici e più, un teatrino, dove Lynch, attraverso uno schermo a inquadratura fissa e mal illuminata, riporta in primo piano la texture manuale dell’attività umana. Che si tratti della rubrica di hobbistica e falegnameria What Is David Working On Today? (A che cosa sta lavorando David oggi?) o delle previsioni meteo per l’area di Los Angeles, Lynch si mette in scena, pupazzo e burattinaio, riportandoci alle allucinate atmosfere di fissità e muti sguardi in macchina che popolano la sua filmografia. Attraverso la scabra semplicità di corpo e videocamera Lynch racconta, e si racconta, in bocconi di vita triviali, rendendoci ancora una volta consapevoli dello sguardo curioso che riserviamo all’entrata nelle vite degli altri. Dunque, un Lynch anti-TikToker? Piuttosto, un ueber-TikToker. Un regista, che di mestiere mette in scena individui un po’ sinceri e un po’ artefatti. E che riconosce quando la pressione esterna diventa insopportabile, e la miglior strategia comunicativa è abbracciare un silenzio profondo, dove è la ricerca di parole aliene, migliori, la vera violenza. Di Elisa Teneggi. Leggi tutti i nostri articoli su David Lynch. Leggi il nostro approfondimento su Twin Peaks, sul #4 cartaceo.
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