
I 10 migliori film horror per conoscere il genere
Fra i generi dell’industria cinematografica, l’horror è senza dubbio quello che catalizza maggiormente le posizioni degli spettatori, polarizzando la differenza tra fan accaniti e detrattori assoluti. Ancora poco studiato come oggetto d’indagine specifico nel contesto italiano, questo genere ha in realtà la capacità di dare espressione ad ansie generazionali, traumi storici e mutazioni sociali ancora allo stato embrionale. Questa, almeno, è la suggestiva ipotesi di Adam Lowenstein, che offre la possibilità di rileggere la storia dell’horror come quella di un progressivo prendere forma di un discorso di (auto-)analisi nei confronti di specifici tratti della nostra cultura e del nostro immaginario. D’altronde, come ha ricordato Julia Kristeva nella sua storica indagine sulla categoria dell’abiezione, è proprio a partire dallo studio di ciò che è osceno, indesiderabile, escluso alla vista ed ai sensi, che possiamo trarre interessanti considerazioni sul nostro mondo. Alla luce di questo specifico modo di intendere l’horror, ecco 10 film (più o meno classici) che dimostrano la capacità del genere di porre problemi teorici rilevanti e che costituiscono ancora oggi un punto d’approccio preferenziale a questo tipo di cinema.

Lo dimostra già uno dei titoli che hanno storicamente dato forma all’horror cinematografico come il Nosferatu di Murnau (1922). Anche rivisto oggi, il film rimane fortemente evocativo per l’uso espressionistico di luci e ombre (il terrore si annida nelle tenebre e da lì prende primariamente a manifestarsi) e rimane storico per la sua capacità di comporre gli elementi fondamentali di una mitologia del vampiro che diventerà imprescindibile per il cinema successivo. La paura del contagio, la componente sessuale del morso, il rapporto fra vampirismo ed economia capitalistica sono tutti elementi che Murnau concretizza in immagini fortemente evocative e che saranno omaggiati, riproposti o parodiati in tutta la cinematografia vampirica successiva (fino al remake integrale di Herzog datato 1979).

Spesso il cinema horror è tale non per i temi che tratta, ma per la sua capacità di insinuare nello spettatore il dubbio che sia l’apparato cinematografico stesso ad essere progettato per cogliere la morte nel suo svolgersi. Si tratta di una sfida teorica che attraversa il genere sin dai suoi esordi, ma che trova una specifica articolazione in Peeping Tom – L’occhio che uccide (1960). Qui è la stessa macchina da presa ad essere messa sotto accusa, per la sua inquietante capacità non solo di registrare, ma addirittura di causare, la morte. Non a caso una nota teorica come Laura Mulvey ha dedicato analisi intriganti al film, interpretato come la migliore rappresentazione di uno sguardo rapace e predatorio.
La psicosi che affligge il protagonista di Peeping Tom viene ulteriormente approfondita e portata a compimento dal filone slasher, che vede uno dei suoi miglior esempi nello storico Non aprite quella porta (1974), omaggiato e aggiornato da numerosi sequel e remake. Oltre alla specifica analisi del rapporto vittima/carnefice (al centro di un noto studio di Carol J. Clover), ciò che colpisce ancora oggi in questo titolo è la capacità ancora attuale di rappresentare l’orrore come qualcosa di quotidiano, che si può incrociare appena fuori dalle grandi metropoli americane. Il Texas di Hooper è un luogo oscuro e maleodorante, dove le strutture etiche e sociali vengono riscritte e rovesciate sino a tradursi in una tetra parodia. La capacità di critica sociale attraversa il genere nella sua interezza e, per quanto riguarda il contesto americano, raggiunge un punto di non ritorno con Society (1989), nel quale l’alta borghesia losangelina viene letteralmente rivoltata per rivelare un corpo esploso, amorfo e brulicante. Il film – che segna il debutto di Brian Yuzna – è ad oggi uno degli esempi meglio riusciti di come un genere solitamente considerato periferico possa essere in grado di tenere traccia delle preoccupanti tensioni che serpeggiano nella nostra cultura.

Si tratta di un tema complesso, che attraversa interamente anche la serie di film che George Romero ha dedicato alla figura dello zombie. Se La notte dei morti viventi è unanimemente riconosciuto come una delle opere più rappresentative della Nuova Hollywood, è con Il giorno degli zombi (1985) che Romero rende più esplicita la lettura politica della sua opera. Come ha osservato piuttosto recentemente Barbara Le Maître, quella dello zombi è una figura complessa e stratificata, che si fonda sulla tensione dialettica fra diverse tradizioni iconografiche (dallo scuoiato al controllo ipnotico) e che per questo si presta molto bene a raccontare il processo di costruzione della subalternità. Non a caso c’è chi (a ragione) ha paragonato la figura del migrante a quella dello zombie.
Anche l’Italia ha avuto, nel passato, la sua parte di merito nella fortuna del genere. Si potrebbe pensare ai film estremi di Lucio Fulci o al successo del filone cannibalico, ma qui preferiamo ricordare l’importanza del fenomeno Giallo, oggi ampiamente studiato all’estero e finalmente riabilitato da un punto di vista critico anche nel nostro paese. Anche in questa particolare tipologia di (pseudo-)horror si possono leggere in filigrana diverse questioni cruciali della cultura e della società italiana dell’epoca, soprattutto per quanto riguarda la costruzione delle identità sessuate.

Si pensi, soltanto per fare un esempio emblematico, a 4 mosche di velluto grigio (1971), capolavoro di Argento nel quale la figura dell’assassino e quella del detective Arrosio concorrono entrambe a costruire un’immagine problematica della sessualità e del modo di viverla nell’Italia di quegli anni (cosa che, peraltro, Argento riproporrà nel successivo Profondo rosso). Se Argento è ancora oggi ritenuto (al di là della qualità dei suoi ultimi lavori) uno dei più influenti autori horror italiani, la categoria di horror d’autore non può che riportare alla mente il caso di Shining (1980), film con il quale un regista di culto come Stanley Kubrick ha omaggiato le categorie del genere riuscendo però a riscriverle dall’interno, creando una narrazione complessa fra le più influenti e citate dell’intera storia del cinema.
Se è vero che l’horror americano è stato uno dei più visti fino agli anni Novanta, a partire da quella decade si assiste all’emergere di una nuova onda proveniente dall’Estremo Oriente, con la produzione e la circolazione dei titoli J-Horror più noti (tutti successivamente riproposti attraverso opportuni remake dal mercato statunitense). Emblematico è già il caso di Ringu (1998), opprimente vicenda sul potere maledicente della tecnologia video che qui citiamo soprattutto per segnalarne le differenze formali rispetto all’horror occidentale. Ringu, come gli altri film di quel periodo (si pensi a The Grudge, Dark Water etc.) è un film d’atmosfera, che rinuncia completamente al jump scare e costruisce la paura sull’attesa di un evento inesorabile, dal quale non c’è via di scampo (il finale, infatti, non è mai risolutivo).

Gli eventi traumatici della contemporaneità (dall’11 settembre in poi) hanno contribuito a ingenerare un profondo rinnovamento formale per l’horror, come dimostra già il caso di Saw – L’enigmista (2004), profeta del cosiddetto torture porn (quel genere, cioè, dove il fulcro visivo sono le sevizie e le torture inferte sui corpi delle vittime). C’è chi ha visto nell’estrema violenza di queste opere un riflesso delle torture americane ad Abu Ghraib e Guantanamo: si tratta di un’osservazione che, corretta o meno che sia, lascia intuire ancora una volta quanto il genere di cui ci occupiamo possa essere considerato un riflesso della società in cui viviamo. Amorale, sadico e rivoltante, ecco il ritratto dell’Occidente che James Wan consegna al suo film culto.

Non diversamente, Jordan Peele affronta in Scappa – Get Out (2017) la questione dell’identità afroamericana nell’America contemporanea, quella del trumpismo e dell’intolleranza montante. Al di là dell’effettiva efficacia della sua prospettiva, ciò che colpisce in questo film (come nel successivo Noi) è la lucidità con cui il regista mette al centro della propria indagine il valore diagnostico del genere, omaggiando ed al contempo rilanciando le analisi storiche citate in queste pagine e confermando ancora una volta l’assoluta rilevanza culturale di un genere troppo spesso considerato ingiustamente privo di interesse.
10. Scappa – Get Out
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