
Anatomia del Piano Sequenza
Una definizione
Al giorno d’oggi tutti gli appassionati della settima arte e non solo conoscono cosa sia un piano sequenza; il cinema contemporaneo infatti ne fa largamente uso dando vita a sequenze di grande impatto e difficile realizzazione che mandano in visibilio i cinefili più accaniti. Il piano sequenza è da sempre una delle figure più affascinanti e ricche di significato del linguaggio cinematografico, la cui nascita e il cui sviluppo sono stati accompagnati fin da subito da numerose discussioni di carattere teorico. Ma facciamo un passo indietro e diamone, per cominciare, una definizione: il piano sequenza è un’inquadratura che da sola svolge le funzioni di una sequenza o scena, esaurendo un intero episodio narrativo. Oggi i manuali di linguaggio cinematografico, sulla base delle definizioni del semiologo Christian Metz, mettono in evidenza la differenza che intercorre tra il piano sequenza vero e proprio e il long take, che, come suggerisce il termine, è invece una lunga inquadratura che, pur non esaurendo una sequenza, dimostra la volontà del regista di non staccare, evitando così il montaggio.

Nascita e teoria del piano sequenza
Il termine piano sequenza è stato coniato intorno al 1950 dal critico e studioso André Bazin in relazione al cinema di Orson Welles. Lo studioso francese aveva infatti bisogno di un nuovo termine per descrivere le particolari scelte di regia di Welles, così alternative alla messa in scena adottata dal cinema classico che per Bazin sancivano l’inizio di un periodo nuovo nella storia del cinema. Abbiamo visto come oggi la critica distingua tra long take e piano sequenza, il critico francese non è invece interessato a queste differenze e utilizza nei suoi saggi indifferentemente lo stesso termine per indicare lunghe inquadrature, sia che esse costituiscano un’intera sequenza sia una parte di essa. Per Bazin è invece fondamentale sottolineare il fatto che in Welles il piano sequenza, unitamente alla profondità di campo (ogni elemento è perfettamente a fuoco sia esso in primo piano o sullo sfondo ) permetta di mantenere la continuità spazio-temporale della realtà, con un effetto di maggiore realismo che riporta il cinema alla sua vera natura ontologica, o meglio, a quella che per lo studioso è tale.
In tal senso Bazin analizza una delle scene più celebri di Citizen Kane (1941), ovvero la scena del mancato avvelenamento di Susan, la seconda moglie del magnate interpretato dallo stesso Welles. Si tratta di una sequenza ripresa a camera fissa e in profondità di campo in cui gli elementi diegetici sono sapientemente disposti su tre piani: in primissimo piano vediamo il comodino della camera da letto di Susan con un bicchiere e un tubetto di medicine aperto, dal letto di Susan, appena visibile poco più in là poiché immerso in una zona d’ombra, giungono dei rantoli ed infine, in fondo alla stanza, possiamo distinguere perfettamente la porta che verrà forzata dal marito. È evidente come questa messa in scena sia assolutamente alternativa rispetto a quella che avremmo avuto secondo le regole del découpage classico; il medesimo episodio sarebbe stato infatti segmentato in più inquadrature, un dettaglio del bicchiere, il primo piano di Susan sul letto, Kane al di là della porta che cerca di entrare e così via. Welles decide invece di non frammentare la realtà mantenendo l’unità spazio-temporale e rifiutando di conseguenza il montaggio o, più precisamente, integrandolo all’interno della complessità dell’immagine.
Bazin si sofferma particolarmente sull’uso del piano sequenza in Welles in quanto il suo è il caso più spettacolare e significativo, ma ritrova la medesima messa in scena, opposta al découpage classico, in diversi altri autori; nell’ambito del neorealismo italiano, ad esempio, lo studioso cita il Rossellini di Paisà e Germania anno zero o il De Sica di Ladri di biciclette come altrettanti registi partecipi di quella rivoluzione del linguaggio cinematografico in cui si inserisce per l’appunto Welles. Per Bazin, infatti, l’uso del piano sequenza, unitamente alla profondità di campo, permette di rendere sullo schermo l’ambiguità del reale, in contrasto con l’unità di senso dell’avvenimento drammatico che comporta il montaggio. Inoltre, anche il rapporto tra spettatore e immagine si modifica rispetto alla rappresentazione classica, siamo infatti chiamati a decodificare attivamente l’inquadratura e possiamo decidere più o meno liberamente cosa guardare e per quanto tempo; il nostro rapporto con l’immagine è di conseguenza più simile a quello che abbiamo con la realtà.
Appare evidente come questa posizione di Bazin si presti a numerose critiche, che infatti non sono tardate ad arrivare; in particolare, si è insistito sulla necessità di ricordare che, anche prescindendo dal montaggio, ogni immagine cinematografica nasconde dietro di sé una serie di scelte puramente arbitrarie (la scelta del campo, della durata, dell’angolazione…) che manipolano la realtà, restituendone una semplice rappresentazione e nulla di più. Inoltre, come apparirà evidente nella disamina dello sviluppo che questa tecnica ha avuto nel nostro cinema contemporaneo, il piano sequenza si presta perfettamente ad essere utilizzato in direzioni ben diverse da quella ipotizzata da Bazin, assumendo usi e connotazioni che poco hanno a che fare con quell’esigenza di realismo tanto agognata dal critico francese.
Lo sviluppo del piano sequenza nel cinema contemporaneo
È interessante a questo punto della nostra riflessione chiederci come si sia evoluta la tecnica del piano sequenza e quale valore assuma oggi nel cinema contemporaneo. Grazie all’evoluzione tecnologica e all’invenzione di nuovi strumenti come la steadycam e la louma, ma soprattutto con l’impulso del digitale, si assiste al passaggio da piani sequenza realizzati principalmente a camera fissa a lunghe inquadrature caratterizzate da movimenti sempre più spettacolari e virtuosistici. C’è di più, è ora possibile realizzare senza troppe difficoltà dei piani sequenza di durata sempre maggiore, tanto che in alcuni casi si arriva addirittura a farli coincidere con interi film. Molto spesso si tratta in realtà di piani sequenza simulati, ovvero realizzati unendo in post-produzione più riprese, cancellando gli stacchi e dando allo spettatore l’impressione della ripresa in continuità.
Uno dei casi più eclatanti è sicuramente Birdman o (L’imprevedibile virtù dell’ignoranza) di Alejandro González Iñárritu, vincitore come miglior film agli Oscar 2015, che è costituito da un unico piano sequenza simulato che nelle intenzioni del regista vorrebbe dare l’impressione di una realtà senza vie di fuga che imprigiona i protagonisti. Più di recente, nel 2019, il regista Sam Mendes con il suo 1917 ci trascina in piena Prima Guerra Mondiale un piano sequenza dopo l’altro.
Molto cinema contemporaneo fa oggi largo uso di questa tecnica servendosi a pieno delle nuove possibilità offerte dal digitale e dallo sviluppo tecnologico per ottenere piani sequenza e long take altamente spettacolari, che puntano a sorprendere lo spettatore, immergendolo in quel “bagno di sensazioni” tipico della postmodernità. Un esempio su tutti potrebbe essere la ormai celebre overture di La La Land, musical del 2016 diretto da Damien Chazelle, che si apre per l’appunto con un vorticoso piano sequenza ottenuto dall’unione di ben tre riprese e che ci catapulta fin da subito in un mondo fatto di musiche coinvolgenti, colori sgargianti e balli scatenati. A prevalere è dunque spesso il carattere immersivo e spettacolarizzante che connota molto cinema contemporaneo, rendendo evidente come il “nuovo” piano sequenza sia ormai lontano da quello teorizzato da Bazin, con la sua ricerca di realismo e di una spettatorialità attiva e consapevole.
Sarebbe tuttavia fuorviante ridurre l’uso del piano sequenza nel cinema contemporaneo ad un semplice esercizio virtuosistico, un modo per lasciare senza fiato lo spettatore trascinandolo all’interno di uno spettacolare mondo di celluloide. Spesso il piano sequenza contemporaneo non si limita infatti a sollecitare unicamente la nostra componente emozionale-sensitiva, ma agisce anche su quella cognitiva, affiancando alla componente estetica una funzione semantica, dall‘inconfutabile efficacia espressiva. Il piano sequenza si conferma dunque come un elemento primario nella costruzione drammatica di un film, contribuendo in modo decisivo alla creazione di senso e significato.
Alcuni esempi emblematici di piani sequenza nel cinema
L’elemento spettacolarizzante del piano sequenza o del long take, seppur caratterizzante molto cinema contemporaneo, non è tuttavia prerogativa unica dei film più recenti. A fare da apripista, anche da questo punto di vista, non può che essere Alfred Hitchcock che con lo straordinario Nodo alla gola (Rope, 1948) costruisce un unico piano sequenza simulato, ricorrendo a ben 8 long take i cui stacchi sono stati sapientemente mascherati dai corpi degli attori stessi che, passando davanti alla macchina da presa, hanno oscurato le immagini per nascondere le interruzioni tra una ripresa e l’altra.
Altro long take dal carattere fortemente virtuosistico e spettacolare è sicuramente l’incredibile apertura di L’infernale Quinlan (Touch of Evil, 1958), di Orson Welles, che si apre sul dettaglio di una bomba ad orologeria, accompagnandoci poi con ampi travelling fino alla sua detonazione.
In una trattazione del piano sequenza non si può non citare la cosiddetta trilogia della morte di Gus Van Sant, composta dai film Gerry (2002), Elephant (2003) e Last Days (2005), le cui lunghe riprese in semi-soggettiva a seguire il movimento incessante dei protagonisti sono diventate una vera e propria icona.
Concludiamo infine con un esempio piuttosto recente, tra i numerosissimi che si potrebbero ancora fare: l’incredibile ouverture di Pieces of a Woman (Kornél Mundruczó, 2020), film in concorso alla 77° Mostra del Cinema di Venezia, attualmente disponibile su Netflix. La pellicola si apre con un lungo piano sequenza di circa 24 minuti che ci trascina nell’intimità di una giovane coppia alle prese con un difficile travaglio in casa. 24 minuti che valgono, senza alcun dubbio, l’intera pellicola.
Bibliografia
A. Bazin, Che cos’è il cinema? (titolo originale: Qu’est-ce que le cinéma?), Garzanti Editore, Milano 1999
G. Carluccio, L. Malavasi, F. Villa (a cura di), Il cinema. Percorsi storici e questioni teoriche, Carocci editore, Roma, 2015
G. Rondolino, D. Tomasi, Manuale del film. Linguaggio, racconti, analisi, DeAgostini Scuola, Novara 2018
L. Malavasi, Realismo e tecnologia. Caratteri del cinema contemporaneo, Kaplan, Torino, 2013
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