
Damien Chazelle – La solitudine dei sognatori primi
Sangue che cola calpestato da piedi che danzano elevandosi verso le stelle, fino a toccare il suolo lunare. Un sogno nato da un’ambizione ai piedi di una panchina in Guy and Madeline on a Park Bench e poi fattosi largo tra le mura di una scuola di musica, i set cinematografici di Hollywood e le sale sterili della NASA. Perché a unire le vite di Andrew Newman, Sebastian Wilder e Neil Armstrong è un fil-rouge nato da frammenti personali di quel creatore che con fare sperimentale unisce le proprie ambizioni, desideri e sofferenze, per infonderle – e così liberarsene catarticamente – negli sguardi e nelle lacrime dei propri personaggi. Sono tre gemelli eterozigoti i personaggi di Whiplash, La La Land e First Man. Diversi nell’aspetto, ma uniti nel destino, sono individui soli che toccano la felicità con la punta delle proprie dita, la assaporano, per poi perderla per sempre, trascinata dalla forza del proprio dirupo sentimentale. Ambizione, fato, lutto: ha tanti nomi la solitudine nei film di Damien Chazelle (Providence, 19 gennaio 1985). Le anime infuse di vita dall’accensione di una cinepresa sono portavoce di un saggio indagante i desideri più atavici di successo e accettazione. Uno studio prosciugato di retorica, redatto con la calligrafia del talento su inquadrature ben studiate tanto a livello tecnico che emozionale. L’amore per una donna in La La Land, la parte migliore di se stessi in Whiplash, il desiderio di superare il lutto lasciando in eredità le proprie lacrime alla polvere lunare in First Man. I personaggi portati sullo schermo da Chazelle sono dunque tanti frammenti di una galleria umana volta a mostrare come spesso i desideri barattino attimi di vita in cambio del successo.
L’essere il primo uomo in tutto – in famiglia al lavoro, in sala prova – porta questi personaggi a librarsi in aria, danzando in cielo sospinti dai propri sogni. Uno specchio per le allodole che li accecherà prima di cadere sul suolo terrestre, prigionieri di una barriera da loro stessi innalzata per salvaguardare i propri cari da tragedie, debolezze o insuccessi personali. Quelli usciti dalla fucina di Damien Chazelle sono uomini soli, chiusi tra pareti che danno su paesaggi vasti e infiniti (lo skyline di Los Angeles, i parchi e le strade affollate di New York, lo spazio) scrutati e ben presto dimenticati da corpi prigionieri di spazi reiteranti la gabbia della loro anima. Una solitudine svelata visivamente da un impiego insistito di primi piani e piani medi. Una commistione di inquadrature ristrette che vanno a collidere con quelle ampie, colorate, intrise di sole e luce che aprono le loro storie, infondendole di ottimismo e sogni giovanili. Nel compromesso tra desideri e realtà, il regista affida a una nota, uno sguardo finale, una mano che cerca quella della propria amata o che lascia cadere il feticcio di un ricordo, il viatico salvifico con cui cicatrizzare le ferite interiori. La felicità ricercata battendo ossessivamente sui piatti di una batteria, oppure sfiorando i tasti di un pianoforte o le pareti di una navicella spaziale, fa di Whiplash, La La Land e First Man una trilogia della necessità di sognare e vivere al di là della solitudine, delle aspettative disilluse e dei cuori spezzati. L’ambizione, nata nel vissuto personale del regista, è ora quel quid in più che rende umani e indimenticabili i propri personaggi. Istantanee di vita (apparentemente) vissuta, pronti a riverberarsi come raggi solari sulla nostra memoria personale, e con essa fondersi.
Andrew, Sebastian e Neil (senza dimenticare le loro controparti femminili e il mefistofelico, quanto sublimemente attrattivo Terrence Fletcher) non sarebbero nient’altro che ombre lasciate all’ingiallirsi di una pagina se non avessero avuto interpreti come Miles Teller e Ryan Gosling pronti a prestar loro corpo e anima. I loro sguardi persi incrociano quelli dei propri spettatori risvegliandoli dalla dolce illusione finzionale. Sono fuochi che accendono fiammelle di ricordi latenti, desideri soppressi, lacrime trattenute per troppi anni. Ma i film di Damien Chazelle, fondati su un ottimo impianto visivo e registico, non sarebbero gli stessi senza la musica di Justin Hurwitz. Tra il regista e il compositore l’amicizia nasce tra i corridoi dell’Università di Harvard. Legati da sogni, passioni e ambizioni, i due uniscono le forze trasformando quelle miriadi di idee in qualcosa di più grande, possibilmente delle dimensioni di uno schermo cinematografico.
Tela su cui disegnare fantasmi di gioie e dolori passati, il cinema diventa una scatola vuota da riempire di dettagli autobiografici. Un mondo incompleto agli occhi di Chazelle che solo Hurwitz può impreziosire, dando voce a quelle emozioni nascoste tra gli interstizi di dialoghi sospesi, o sospiri rotti dal dolore. A partire da quel Guy and Madeline on a Park Bench (lungometraggio del 2009 che con i suoi 82 minuti segna l’inizio della carriera registica di Chazelle), la colonna sonora di Justin Hurwitz è un filo sottile e instabile su cui lasciare camminare le vite dei propri protagonisti. Basta una nota stonata, un acuto improvviso, un tasto premuto con troppa forza o con troppa ambizione che il rosso del sangue prende il posto del rosso dell’amore, e il sudore bagnerà, fino a farli svanire, i sogni di successo. Un valzer di sentimenti che Hurwitz riesce a tradurre in melodia, e Chazelle in mille e più istantanee di vite vissute al limite del proprio sguardo interiore, mentre là fuori si combatte la guerra alla propria solitudine a suon di batticuore e ambizione.
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