
Pieces of a Woman – Ecografia di una non-maternità
Un lungo piano sequenza ci apre le porte dell’intimità domestica di Martha e Sean, del loro cibo in frigorifero, della biancheria in camera da letto e degli angoli più privati del corpo di una partoriente a cui si sono appena rotte le acque, e noi, come ostetrici fuori campo, costretti a condividere un lungo travaglio notturno. Così Kornél Mundruczó, regista ungherese al primo film in lingua inglese, dirige il suo lungometraggio: a fare da ouverture un elegantissimo unico piano sequenza (lungo all’incirca 24 minuti) in cui si consuma la perdita di una bambina appena nata, per poi condurci nel post-traumatico controcampo in celluloide del prologo, un calendario per immagini (e scandito in mesi) dello scorrere e disfarsi del trauma.
Già premiato a Cannes per il suo White God, che ottenne nel 2014 l’Un Certain Regard, il regista riceve quest’anno alla 77esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia la Coppa Volpi per Vanessa Kirby. Una mano mai invasiva quella dell’autore, o meglio, co-autore insieme alla ex moglie (Kata Wéber) di un’opera quasi testamentaria, ispirata alla medesima perdita vissuta in prima persona. Pieces of a Woman diventa allora metafora di un lutto (tanto ben scritto da ottenere la produzione esecutiva di Martin Scorsese), un evento atteso che si trasforma in trauma inatteso, costringendo Martha e la sua famiglia a vivere una vita alternativa monca, a elaborare l’assenza più che la morte, e a reagire alla brutalità delle contingenze a cui è difficile trovare una giustificazione plausibile.

Il film è pensato come un’opera in due atti, dunque, che fungono da cardini di un meccanismo di causa-effetto: la compagine degli eventi narrati nel secondo atto, infatti, altro non è che conseguenza del tragico parto in casa mostratoci nel primo. Le due parti della pellicola sono connesse antiteticamente anche a livello formale, facendo della prima la ricostruzione scenica di un ambiente protetto ed estremamente vivo – un utero che ingloba l’appartamento dei coniugi di Boston – e della seconda la confusa relazione col mondo esterno, con gli altri, con plurimi ambienti eterogenei a cui si fa fatica ad abituarsi. Nella scena del parto ci troviamo catapultati in un meccanismo di totale “contrazione”: la regia non perde per un attimo Vanessa Kirby, seguendola in tutte le fasi del travaglio e mostrandoci, in maniera estremamente palpabile ed epidermica, il contrarsi del suo corpo, del suo respiro e dei dolori lancinanti provocati da misteriose complicanze. I colori caldi delle immagini concorrono a questo intento immersivo, così come il fluido passaggio di focus della macchina di Mundruzcò, che si concentra sui punti più delicati del corpo di Martha seguendo il fluire del dolore che li attraversa, al fine di combinare insieme l’altissima tensione e gli elementi visivi che maggiormente la provocano.

La seconda parte è di tutt’altra natura. Più lenta e fiacca per lo spettatore, la vita di Martha e Sean (Shia LaBeouf) diventa una successione di eventi dal simbolismo sottile ma dal valore scenico di qualità inferiore, se non per alcuni momenti di rilievo. Lo svuotamento della casa di tutti gli oggetti destinati alla piccola Yvette, il precoce ritorno di Martha al lavoro e l’inizio di una causa penale ai danni dell’ostetrica sono particelle confuse del superamento del lutto. Ma il passaggio estremamente rapido da una scena all’altra ha reso difficile conferire profondità agli eventi narrati, passando dal meccanismo di “contrazione” del prologo ad uno di “distensione” mal funzionante: il superamento del lutto da parte dei personaggi è singhiozzante, incompleto, appena accennato, un lavoro che non regge il paragone con l’ipnotico primo atto. Le scale di grigio sui cui viene configurata la seconda parte, si oppongono invece perfettamente all’atmosfera del piano sequenza, palesando la distanza ora notevole della protagonista tanto con noi spettatori quanto con marito e madre.

La bellezza del film, che non può essere ridotta ai primi 24 minuti, emerge quando si riflette sugli intenti dell’opera. I mesi che seguono il parto vanno infatti concepiti come controcampo della gravidanza di Martha, come rewind anti-biologico di una vicenda che necessita di essere esplorata in senso contrario. Riporre gli oggetti della cameretta di Yvette negli scatoloni, tentare di avere rapporti sessuali fallimentari col marito fino a trascorrere la notte a ballare e flirtare con gli sconosciuti, tutta una serie di pratiche di accoppiamento, ma a ritroso, che in un meccanismo anti-meiotico passano dal trio familiare, alla coppia e all’individualità.
“Pieces” of a Woman, questi frammenti di donna non sono soltanto quelli provocati da un fortissimo dolore, ma lo smembramento a cui è condannata una non-madre. I “pezzi” di una donna sono innanzitutto la parcellizzazione del femminile: la “parte” come utero, come figlio, ma principalmente le “parti” come ruoli che la donna riveste nell’arco della sua vita (figlia, moglie in attesa, madre, ostetrica). In questo caso, la parcellizzazione è la frattura di fronte all’impossibilità di ricondurre il ruolo di non-madre a un iter vitale ragionevole. La metafora biologica adottata dal regista, anche a livello tecnico, rende allora palpabile il carattere casuale degli eventi umani, la mera meccanica dell’errore, senza risolversi nella ricerca di un capro espiatorio o nell’appello all’ultraterreno.

Nonostante alcuni momenti dal gusto posticcio, e un andamento non sempre galoppante, Pieces of a Woman resta senz’altro un film delicato e dalla forte attrattiva estetica. Una Coppa Volpi meritatissima per la Kirby e un colpo d’occhio per Netflix che ne cura la distribuzione, ma soprattutto un tentativo imperfetto di epurare il trauma sullo schermo dalla sua componente spettacolarizzante, fornendoci invece la sua longilinea radiografia, la riduzione del dolore nel suo negativo fotografico. Un’operazione che trova i suoi pregi proprio nel rigore formale e nella configurazione geometrica di un’assenza fatta di spazi vuoti, di una perdita eternamente presente.
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