
Breve storia della Soggettiva Cinematografica
Una definizione
La soggettiva cinematografica è un tipo di inquadratura, di forma retorica, narrativa e dello sguardo assimilabile generalmente alla visione in prima persona. Semplificando molto, si ha una soggettiva quando lo sguardo della macchina da presa si sovrappone a quello di un personaggio diegetico, simulandolo in quanto a posizione e direzionalità. La soggettiva riguarda anche il campo sonoro, quando si percepisce una sonorità che simula l’udito di un personaggio (si pensi semplicemente ai suoni subacquei percepiti da un personaggio immerso in acqua).

La soggettiva – denominata in inglese “Point of View Shot” (POV) – va distinta dal “First Person Shot” (FPS), anch’esso implicato in importanti questioni di percezione, soggettività e sguardo, ma riferibile principalmente a quelle situazioni ambigue che travalicano il Cinematografico puro e percorrono i territori complessi dell’intermedialità, come certi tipi di mockumentary, i videoclip, i videogame, le riprese da dispositivi di videosorveglianza o di visione accessori (visori notturni, go-pro, visori 3D, realtà aumentata ecc).
Cloverfield (2008, Matt Reeves) Elephant (2003, Gus Van Sant)
La tecnica e la teoria della soggettiva nel cinema
La soggettiva necessita di indicatori specifici che la qualifichino come tale, facendone percepire la presenza. Alcuni esempi: le mani davanti all’inquadratura (che possono anche brandire oggetti, come i coltelli nei film di Dario Argento), mascherini che ritagliano l’inquadratura, oggetti di ostacolo o interferenza alla visione (capelli di un personaggio, parabrezza della macchina), riflessi del personaggio negli specchi, elementi sonori che svelano il personaggio dietro la macchina da presa, il movimento della macchina da presa stessa che simula uno sguardo (con panoramiche a schiaffo, spostamenti disordinati e rapidi, carrellate), o in casi più recenti la simulazione del battito delle palpebre, come in Enter the Void (2009, Gaspar Noé) e Le scaphandre et le papillon (2007, Julian Schnabel); ma soprattutto è la consecutio costruita dal montaggio a identificare quello sguardo come “soggettiva”, situando l’inquadratura nella posizione occupata da un personaggio precedentemente o successivamente mostrato in campo.
La denominazione di “soggettiva”, tra l’altro, rende conto dell’idea di soggettività che storicamente si è affiancata molto spesso a questo tipo di inquadratura, promuovendo la relazione diretta dello spettatore con le immagini attraverso lo sguardo del personaggio. La soggettiva è stata lo strumento retorico in grado di veicolare l’idea di uno sguardo parziale sulle cose all’interno di un racconto, contrariamente a una presunta oggettività della macchina da presa. In altri casi, a partire dalle avanguardie del primo Novecento, è stata il mezzo di espressione prediletto per rappresentare una visione distorta, onirica e deformata – si veda a titolo d’esempio Coeur fidèle (1923) di Epstein. Col tempo e con la nascita di un linguaggio cinematografico consolidato, la soggettiva è diventata una forma retorica classica e convenzionale, ma ha mantenuto una certa propensione alla sperimentazione.
La storia della soggettiva nel cinema
Grandma’s Reading Glass (1900, George Albert Smith). Il piano d’ambiente. Grandma’s Reading Glass (1900, George Albert Smith). La soggettiva.
I primi utilizzi effettivi della soggettiva si hanno in una serie di film dei primissimi del ‘900 caratterizzati dalla presenza di persone che osservano degli oggetti attraverso strumenti di visione, i cosiddetti “keyhole films”, il cui apripista fu Grandma’s Reading Glass (1900) di George Albert Smith (qui il link al breve film). Si tratta, tuttavia, di un utilizzo non marcato in senso narrativo, anche perché doveva ancora maturare il linguaggio del cinema classico che permettesse una narrazione compiuta.
Da forma dello sguardo, la soggettiva si prepara così a diventare una forma linguistica e retorica consolidata all’interno del linguaggio cinematografico classico. Inoltre, analizzando la presenza della soggettiva nei generi cinematografici, si può attestare un utilizzo prevalente che attraversa il noir nel periodo classico – basti pensare a due film ricorrenti nelle riflessioni sulla soggettiva, Dark Passage (1947, Delmer Daves), e Lady in the Lake (1947, Robert Montgomery) – per diventare, poi, quasi una marca di genere di thriller e horror dagli anni ’60 agli anni ‘80, con un’incidenza notevole fino a oggi.

I film di Alfred Hitchcock sono colmi di riflessioni sullo sguardo in cui la soggettiva gode di uno status fondamentale: si pensi a Rear Window (La finestra sul cortile, 1954) un vero saggio sullo sguardo e sullo spettatore, dove si trovano soggettive ingannevoli o false a fianco di soggettive canoniche, addirittura con riferimenti al cinema delle origini attraverso mascherini e dispositivi ottici di ingrandimento; oppure a Vertigo (La donna che visse due volte, 1958), dove il famoso “effetto-vertigo” altro non è che una soggettiva di un personaggio che soffre di vertigini. Il genere horror di Bava e Argento trabocca di soggettive, talvolta veri e propri clichè di genere, ma molto spesso incastonate in audaci e complessi sistemi ottici, come in L’uccello dalle piume di cristallo (1970, Dario Argento). Il cinema postmoderno di John Carpenter, David Cronenberg e Brian De Palma, poi, non ha bisogno di presentazioni in questo senso.

Successivamente, nel corso degli anni ’90 e dei primi 2000, nuove pratiche cinematografiche tra cui spicca il mockumentary hanno rielaborato la soggettiva in contesti decisamente più ambigui e difficilmente definibili secondo le linee guida consolidate. In questi casi è più opportuno ampliare la nozione standard di soggettiva (POV) in quella di First Person Shot, che tiene conto delle questioni di percezione e soggettività in un panorama intermediale. A partire da Strange Days (1995, Kathryn Bigelow), vera summa di un’epoca di sguardi, la soggettiva classicamente intesa tenderà a sfumare i propri confini, come il cinema stesso. Persisteranno casi eclatanti di conservazione formale della soggettiva in film come Being John Malkovich (1999, Spike Jonze), Le scaphandre et le papillon, Enter the Void e perfino in film che si basano su dialoghi tra media differenti come Unfriended (2014, Levan Gabriadze).

Tuttavia, nell’epoca intermediale contemporanea, prevalgono spinte e necessità differenti e contraddittorie ben rappresentate da The Blair Witch Project (1999, Daniel Myrick & Eduardo Sánchez) – un prodotto che riporta un punto di vista soggettivo basato sull’incorporazione di un linguaggio visuale differente da quello cinematografico – e da Elephant (2003, Gus Van Sant). In tale direzione vanno sia lavori epocali sui sistemi di visione come Redacted (2007, Brian De Palma), sia film quali Zero Dark Thirty (2012, Kathryn Bigelow) o Sicario (2015, Denis Villeneuve), sicuramente molto interessanti anche perché appartenenti a un circuito di più alto budget.
Esempi emblematici di soggettiva nel cinema
Le seguenti esemplificazioni vanno a completare il discorso precedente con dei consigli di visione molto variegati. Ad ogni modo, si osservi il funzionamento di base della soggettiva per cui “io (spettatore) vedo con gli occhi di un personaggio diegetico”. Si noterà che la soggettiva è una forma del linguaggio caratterizzata al contempo dal massimo della finzione e dal massimo dell’immedesimazione. Proprio sulle idee di immersività e immedesimazione giocano gli esempi di soggettiva qui proposti.
In Dark Passage (1947), grande film di Delmer Daves, la sequenza iniziale omette agli spettatori la presentazione del protagonista proprio perché stiamo guardando attraverso i suoi occhi. Si crea un’attesa inconsueta per un inizio di film, poiché viviamo in prima persona una fuga di cui non sappiamo nulla, ma che ci riguarda direttamente. Immedesimazione nel personaggio e immersività nell’azione dunque.
Enter the Void (2009), il “melodramma psichedelico” di Gaspar Noè, è uno di quei rari film ad essere girati interamente in soggettiva e in piano sequenza. Inutile soffermarsi a sottolineare la potenza e l’intensità di questa scelta registica, apoteosi dell’immersività e al contempo dell’evasione del soggetto dal proprio corpo.
Una celeberrima soggettiva è quella che apre Halloween (1978) di John Carpenter. Questo incipit rivela la correlazione stretta che sussiste spesso tra soggettiva e piano sequenza, specialmente tra soggettiva e movimento di macchina che simula il movimento dello sguardo. Non mancano mascherini ottici, coltelli e mani che passano davanti all’inquadratura. Memorabile il finale della scena in cui ci viene rivelata l’identità dell’assassino, un “docile” bambino. Il montaggio svela il trucco e abbatte un mondo di cliché tipici dell’horror.
Qui, invece, l’iconica soggettiva del film Vampyr (1932) di Carl Theodor Dreyer, quella del morto che “guarda” attraverso il vetro di una bara. Dreyer ci fa assumere un punto di vista impossibile, o forse no…
A proposito di punti di vista impossibili: ecco la scena di apertura di 8 e ½ (1963) di Federico Fellini, che ci permette di sottolineare uno di quei casi in cui la soggettiva è la modalità più consona per rappresentare una deformazione della realtà, nello specifico una deformazione onirica. Il protagonista sta sognando di essere in cielo con una corda al piede, come fosse un aquilone; ovviamente vede la scena in prima persona e a livello percettivo la resa è sconvolgente.
Being John Malkovich (1999, Spike Jonze): dopo che tutti hanno ormai fatto la fila per “essere John Malkovich”, ovvero entrare dentro di lui per vedere il mondo con i suoi occhi, ecco la scena-cortocircuito in cui è John Malkovich in persona a entrare dentro se stesso. Spike Jonze non ha dubbi che sia la soggettiva a dover veicolare questo contorto gioco di rappresentazioni dentro alle rappresentazioni.
Stanley Kubrick, altro regista prolifico di riflessioni sul tema dello sguardo lungo tutta la sua filmografia, regala una soggettiva che è rimasta emblematica del rapporto tra uomo e macchina. Si tratta della sequenza di 2001: A Space Odissey (1968), in cui ci viene mostrata la soggettiva del computer di bordo HAL 9000 mentre legge il labiale degli astronauti che vogliono disattivarlo. Noi spettatori (umani) ci vediamo costretti a guardare attraverso l’occhio di una macchina e a metterci nei suoi panni. Niente di più spersonalizzante, se si pensa che ci stiamo immedesimando con un’entità artificiale che, forse, ha comunque più emotività e umanità dell’umanità stessa.
Anche nel panorama intermediale persistono casi di soggettiva “canonica”. Il finale di Unfriended (2014, Levan Gabriadze), mockumentary apparentemente ambientato in screencast come l’apripista del genere Open Windows (2014, Nacho Vigalondo), ci rivela in realtà l’inganno alla base di tutto il film: quella che doveva essere una registrazione dello schermo di un PC, è in realtà una soggettiva della protagonista che guarda lo schermo del suo computer.
Bibliografia e sitografia
- E. Branigan, Point of View in the Cinema, Mouton Publishers, New York, 1984.
- F. Casetti, L’occhio del Novecento, Bompiani, Milano, 2005.
- E. Dagrada, Soggettiva, in Treccani Online – Enciclopedia del Cinema, 2004, URL: link alla pagina.
- E. Dagrada, The diegetic look, in “Iris”, 1986, 7, pp. 111-124.
- R. Eugeni, Remediating the presence. First-person shots and post cinema subjectivity, in T. Migliore (a cura di) Rimediazioni. Immagini interattive, Aracne editrice, Roma, 2016, pp. 201-214.
- C. Formenti, Il mockumentary, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2013.
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