
Breve introduzione all’utilizzo della Profondità di Campo
Definire la profondità di campo
Andando a collocare la sua definizione su di un piano squisitamente fotografico, la profondità di campo nel cinema è concepita come un’immagine all’interno della quale tutti gli elementi rappresentati, da quelli in primo piano fino a quelli posti sullo sfondo, risultano perfettamente a fuoco. Più precisamente, questa è la distanza che intercorre tra l’oggetto di ripresa più vicino e quello più lontano (sempre in relazione all’apparecchio di ripresa) che all’interno dell’inquadratura appaiono nitidi sul piano focale.
Da un punto di vista tecnico essa è tanto maggiore quanto minore sono l’apertura del diaframma dell’obiettivo e la sua lunghezza focale, e quanto maggiore è la distanza di ripresa dell’apparecchio utilizzato. Di conseguenza, per messa in scena in profondità di campo si va a intendere la disposizione degli oggetti e dei personaggi sui differenti piani dell’inquadratura e il loro reciproco relazionarsi (praticamente, ma come vedremo poi, soprattutto concettualmente) all’interno di essa.
Utilizzo e significato
La profondità di campo è una tecnica sostanzialmente vecchia com’è vecchio il cinema. Di questa specifica resa visiva dell’immagine ne è pieno difatti il cinema delle origini, seppur all’epoca l’utilizzo fosse dettato più da esigenze di matrice pratica che da una reale scelta in termini espressivi. Ne facevano già un ampio utilizzo i primi film dei fratelli Lumière, costituiti da ampie riprese effettuate nella maggior parte dei casi all’aperto e voraci di denso materiale visivo (dopotutto quello delle origini è noto anche come il cinema delle attrazioni, del ludico che incrocia l’immagine in movimento).
Influiva certamente anche la tipologia di pellicola utilizzata ai tempi, quella ortocromatica – sensibile allo spettro del blu-viola e quasi insensibile al giallo-rosso –, assieme alla luminosità degli obiettivi e all’esigenza, appunto, delle riprese in esterna. Con l’avvento del sonoro, databile idealmente al 1926 con la produzione e l’uscita del film Don Juan di Alan Crosland, l’utilizzo della profondità di campo subì una battuta d’arresto. Indubbiamente l’incidenza delle recenti innovazioni tecniche influì in maniera considerevole, così come avvenne con la diffusione dell’impiego della pellicola pancromatica – in grado di percepire tutto lo spettro del colore – , meno sensibile alla luce della precedente ortocromatica e che, di conseguenza, richiedeva una più decisa apertura del diaframma dell’obiettivo che portava le immagini a essere più sfocate (il cosiddetto effetto flou) in seguito a una messa a fuoco parziale.
Accantonando però l’esclusiva motivazione tecnica – che resta senza dubbio un tassello non trascurabile –, è qui che facciamo il nostro incontro con una figura fondamentale per delimitare i confini e l’importanza dell’uso della profondità di campo: André Bazin. È il celebre teorico francese a lanciare il j’accuse secondo il quale l’abbandono della profondità di campo non sia imputabile solamente a questioni di natura tecnica, bensì da rintracciare anche, se non interamente, nell’evoluzione conosciuta dal linguaggio cinematografico e dalle sue capacità manipolatorio-espressive attraverso l’incidenza del montaggio.
In merito al flou egli scrive che «la sfocatura nell’immagine non è apparsa che col montaggio. Essa non era solo una servitù tecnica conseguente all’uso delle inquadrature ravvicinate ma la conseguenza logica del montaggio, il suo equivalente plastico». Semplificando un po’ la questione riducendola a minimi ed essenziali termini, per Bazin l’utilizzo del montaggio – quindi anche il limitare l’utilizzo della profondità di campo – all’interno di un’opera cinematografica va a spezzare i legami di continuità spazio-temporale che sono in grado di restituire allo spettatore il maggiore realismo possibile.

Ancora, il montaggio («il quale non è altro che l’organizzazione delle immagini nel tempo») svuota del potere del reale la narrazione per immagini nel momento in cui interviene nel guidare lo spettatore all’interno di un racconto visivo “univoco”. Selezionare a monte secondo un ordine di consequenzialità i frame all’interno di un film, per Bazin significa tagliare via quel cordone ombelicale che lega l’ambiguità della realtà con la sua possibilità di lettura ambivalente all’interno del testo filmico, che priva, in definitiva, il cinema della sua vera natura ontologica. Il senso di ciò che è mostrato su uno schermo è quindi forzato perché assuma, in favore dell’espressione narrativa, significato solamente all’interno di un binario prestabilito.
Da qui Bazin elabora una fortissima e viscerale avversione per il montaggio, il cui sfogo principale è quello sintetizzato nella teoria del montaggio proibito. Posizione ideologica, questa, atta a contrastare la violenza coercitiva di cui si armano il découpage classico hollywoodiano (che seleziona per noi i punti salienti del racconto) ma anche il montaggio connotativo ejzenstejniano (che crea per noi significato attraverso uno specifico accostamento di immagini).
Le munizioni nella fondina di Bazin sono proprio la profondità di campo unita a stretto giro all’uso del piano sequenza (al cui articolo gemello vi rimandiamo), tecniche che nella comune commistione di intenti permettono di preservare la rappresentazione del reale nel rispetto delle sue caratteristiche essenziali, nonché mantenere quell’aspetto di ambiguità che già precedentemente si è richiamato. Insomma, minore è l’interruzione di chiarezza visiva e di durata temporale che un’inquadratura subisce “esternamente”, maggiore è l’aderenza dell’immagine ripresa al reale.
Alcuni esempi ideali
Appare quindi evidente l’esaltazione del pensatore francese nel momento in cui, dopo un periodo di sostanziale abbandono di questi due processi discorsivi, arriva il regista americano Orson Welles a lasciare una significativa traccia con il suo Quarto potere (Citizen Kane, 1941). Ad onor del vero, come lo stesso Bazin tiene fortemente a ricordare, prima di Welles nella Francia degli anni ’30 c’è da annoverare il modernismo di quello che dell’autore statunitense può essere considerato come precursore, Jean Renoir.
Renoir, un cineasta che dopo La grande illusione (1937), L’angelo del male (1938) e prima de La regola del gioco (1939) scriveva: «Più vado avanti nel mio mestiere, più sono portato a fare della regia in profondità rispetto allo schermo; più questo metodo va bene, più io rinuncio al raffronto di due attori piazzati davanti alla macchina da presa come dal fotografo». E di fatto sarà proprio La regola del gioco a sancire una sorta di coronamento dell’attività elaborativa di Renoir, un film che fa forte affidamento su inquadrature lunghe e girate in profondità di campo, dove i segni grammaticali della macchina da presa sono ridotti al minimo per garantire l’impressione di un intreccio di eventi che vengono riproposti nel rispetto della loro continuità.



Un titolo, quello del film, che rimanda alla costruzione delle convenzioni fondate sulle apparenze e sui rapporti di forza sociali, anticamera di un’opera corale che Renoir cuce sulle spalle dei propri attori. Quest’ultimi vengono colti all’interno dell’inquadratura che nella nitidezza visiva e nella fluidità temporale («tempo reale») del piano sequenza vanno a intessere un continuo «happening». Quest’ultimo stimola a scorgere gli sguardi e la prossemica, che sono i veri significanti (non a priori) della narrazione. In Renoir il tentativo di composizione in profondità corrisponde a una parziale soppressione dell’uso del montaggio, sostituito per buona parte dalle frequenti panoramiche e dalle numerose entrate in campo. E questo va a presupporre il rispetto della continuità dello spazio drammatico e quindi anche della sua durata.
Ma tornando a Quarto potere, è esercizio inutile rievocare qui la gloria di un film che non conosce confini di spazio e di tempo (questo sì vero long take concettuale di un intramontabile modernismo nella storia del cinema, rievocato a suo modo da David Fincher con Mank). Ciò che invece risulta utile è il porlo come altro modello di quanto abbiamo brevemente presentato, cogliendo in alcune sue specifiche inquadrature il portato teorico ideale per meglio riconoscere il valore della profondità di campo.

Prendiamo come esempio il noto frame in cui i genitori del piccolo Charles Foster Kane decidono di dare il proprio figlio in affidamento al banchiere Tatcher. In un primo momento osserviamo il bambino giocare fuori dalla casa nella neve; successivamente un movimento di macchina all’indietro articola l’immagine come una sorta di semi-soggettiva dove è la madre a osservare Kane; proseguendo ancora, la sequenza aggiunge nell’inquadratura anche il padre e Tatcher, articolando la struttura del quadro filmico su tre differenti piani d’osservazione. Sullo sfondo rimane messo a fuoco Kane, incorniciato dalla finestra (piano sacrificale, il bambino è vittima ignara); a metà strada troviamo il padre, sul bordo sinistro dell’inquadratura e in un limbo denotato dalle sue deboli rimostranze alla scelta che sta per essere compiuta (piano di passività); infine arriviamo alla madre e al futuro tutore, che stanno per firmare le carte nell’unico vero atto consapevole della sequenza (piano attivo).
Seguendo questa lettura, le ipotesi di Bazin appaiono valide. La costruzione in profondità di campo adoperata da Welles pare concedere allo spettatore la possibilità di articolare il proprio discorso narrativo a seconda del focus che vuole andare a porre nell’analisi di un’immagine “complessa”, intesa nell’ottica di una rappresentazione mobile perché ambigua e costruita in maniera polivalente nella stessa unità di tempo. Qui, però, si rintraccia anche l’esempio più esplicito di montaggio interno, ovvero della principale critica mossa a Bazin in merito alla sua formulazione di negazione del découpage.
Dobbiamo dunque tenere conto delle relazioni del profilmico che Welles mette in atto nel momento in cui assegna priorità agli elementi interni al piano di profondità. Relegare il bambino sullo sfondo e la madre che firma il documento più vicina all’apparecchio di ripresa, denota infatti un chiaro stabilire i gradi di importanza drammatici all’interno dello spazio. Senza dubbio non viene rotta la continuità spazio-tempo interna all’immagine, ma in modo altrettanto cristallino questa viene manipolata perché emergano determinate predominanze spaziali.

Le stesse tipologie di identificazione e di lettura dell’inquadratura assumono rilevanza nell’altrettanto celebre sequenza del tentato avvelenamento della seconda moglie del magnate. Ancora una volta troviamo una strutturazione dello spazio su tre differenti livelli, specchio di altrettanti significanti (ordinati accuratamente da Welles questa volta con un efficace gioco di illuminazione della scena): in primo piano si trova il flacone del sonnifero; immediatamente dopo il volto della donna in penombra; sullo sfondo la silhouette di Kane che irrompe nella camera da letto. E ancora una volta al montaggio propriamente definito si sostituisce un furbo utilizzo del montaggio interno, che eppure concede all’ambiguità della rappresentazione di mantenersi fluida e liberamente identificabile, seppur con una chiara gerarchizzazione dell’importanza degli elementi costitutivi l’immagine.
Bibliografia
A. Bazin, Che cos’è il cinema? (titolo originale: Qu’est-ce que le cinéma?), Garzanti Editore, Milano 1999.
D. Bordwell, K. Thompson, Storia del cinema. Un’introduzione (titolo originale: Film History: An Introduction), McGraw-Hill Education, Milano 2010.
G. Rondolino, D. Tomasi, Manuale del film. Linguaggio, racconti, analisi, DeAgostini Scuola, Novara 2018.
L’intrepretazione dei film, a cura di P. Bertetto, Marsilio Editori, Venezia 2018.
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