
Lungo il cinema metamorfico di Gus Van Sant – Un viaggio in tre tappe
Compie oggi gli anni Gus Van Sant, regista che da sempre si sottrae fieramente a ogni tentativo di incasellamento, rifuggendo le etichette e sperimentando in ambiti sempre diversi, a partire dal suo cinema. Nato il 24 luglio del ’52 a Lousville, Kentucky, Van Sant non si è dedicato unicamente al cinema, che resta – come lui stesso dichiara – la sua forma d’arte congeniale, ma ha spaziato dalla pittura alla fotografia – celebre la sua raccolta di ritratti 108 Portraits –, dalla musica alla letteratura. Il regista di Portland, città in cui attualmente risiede, mostra però una predilezione particolare per il visivo, contando all’attivo 17 lungometraggi, diversi corti e alcuni videoclip, tra cui vale la pena ricordare almeno il celeberrimo Under the Bridge dei Red Hot Chili Peppers.
Kids in movimento
La filmografia di Van Sant, pur fortemente variegata e metamorfica, mantiene un’impronta autoriale immediatamente riconoscibile. Passando dal cinema underground e omosessuale delle origini, attraverso i film hollywoodiani di successo – in testa Will Hunting – Genio ribelle, vincitore agli Oscar nel ’98 – fino alla sperimentazione della Trilogia della Morte e alle opere successive, il regista continua ad indagare, attraverso linguaggi e modalità diverse, temi, figure e ossessioni che da sempre popolano i suoi film e contraddistinguono la sua poetica. Tema prediletto della cinematografia vansantiana appare sicuramente l’universo adolescenziale, mostrato in tutta la sua insondabilità. L’occhio della macchina da presa è attirato, fin dall’esordio in bianco e nero con Mala Noche (1985), da figure di giovani reietti, ai margini della società, che vivono per la strada. Nella fase successiva della sua carriera, con i film hollywoodiani prima e dopo la “svolta” di Gerry (2002), Van Sant racconta nuove storie, sperimenta formati diversi e differenti modalità produttive, compie nuove e, talvolta, antitetiche scelte stilistiche, ma i giovani continuano a popolare le sue pellicole.
I kids vansantiani, siano essi i dropout ribelli del periodo indipendente o i giovani “normali” dei film successivi, sono adolescenti con genitori assenti e un rapporto problematico con gli adulti, indifferenti o incapaci di comunicare con loro. E in questo mondo adulto, omologato e omologante, i giovani protagonisti di Van Sant faticano a trovare la propria strada, traducendo la ricerca della propria identità nel difficile passaggio verso l’età adulta in un movimento effettivo, fisico, che si carica di una valenza esistenziale. Ecco dunque un’altra delle figure ricorrenti del cinema del regista di Portland: il movimento, che si configura prima di tutto come quello continuo dei suo protagonisti, eroi centrifughi appartenenti ad una generazione “mobile”, che vive sulla soglia, sospesa tra due età. Adolescenza e movimento si offrono dunque come chiave di lettura per questo breve viaggio in tre tappe lungo le diverse fasi della metamorfica filmografia di Gus Van Sant.
Belli e Dannati – Il cinema indipendente delle origini
Come tutti i film del primo periodo del regista, Belli e Dannati (My Own Private Idaho, 1991), terzo lungometraggio di Van Sant, può essere considerato a tutti gli effetti un road movie, i cui protagonisti, giovani outsider che abitano la strada e si prostituiscono per denaro, percorrono in lungo e in largo i grandi spazi incontaminati del paesaggio americano, in un viaggio infinito e senza meta, in fuga dalle regole della società e alla ricerca della libertà assoluta. Divenuto ben presto un vero e proprio cult, il film racconta il viaggio di Mike (River Phoenix), giovane hustler che soffre di narcolessia, alla ricerca della madre assieme all’amico e compagno di avventure Scott (Keanu Reeves), figlio ribelle di una ricca famiglia borghese.
Elephant – La sperimentazione della Trilogia della Morte
Elephant, vincitore nel 2003 del premio per la miglior regia e della Palma d’oro al Festival di Cannes, è il secondo capitolo della cosiddetta Trilogia della Morte, momento di profondo rinnovamento produttivo, stilistico e teorico. La pellicola, ispirata alla strage della Columbine High School, offre il pretesto al regista per tornare ad indagare il proprio soggetto antropologico per eccellenza, gli adolescenti. Lungo tutta la pellicola la macchina da presa non fa infatti altro che pedinare i ragazzi lungo gli ampi corridoi della scuola, seguendoli durante una giornata qualunque. Il continuo movimento dei personaggi non rappresenta più il desiderio di fuga e libertà di Mike e Scott, piuttosto diventa sintomo di un forte malessere: l‘impossibilità di trovare il proprio posto all’interno di una società rigida e oppressiva viene tradotto visivamente dall’incessante camminare dei protagonisti della pellicola, all’interno di corridoi labirintici, sempre uguali, che sembrano non lasciare scampo. Punto d’arrivo di questo continuo vagare è infatti significativamente lo scoppio di violenza della strage, mostrato solamente negli ultimi 20 minuti del film.
Restless – Il ritorno alla narrazione tradizionale
Con Restless (2011), delicata commedia romantica dalle tinte melodrammatiche, Van Sant torna a scandagliare, seppur in maniera più convenzionale, l’universo adolescenziale e il suo rapporto con la morte. Il giovane Enoch (Henry Hopper) ha infatti perso i genitori in un incidente d’auto e da quel momento appare ossessionato dalla morte, tanto da imbucarsi ai funerali di sconosciuti. In una di queste occasioni incontra Annabel (Mia Wasikowska), ragazza malata gravemente di tumore, con cui stringe un‘intensa relazione. Per il regista di Portland il faticoso passaggio verso il mondo degli adulti coincide necessariamente con la fine di qualcosa; adolescenza e morte costituiscono dunque un binomio indissolubile che percorre l’intera pellicola.
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