
#BirdmenConsiglia: 5 cortometraggi da vedere su MUBI
MUBI, poco tempo fa, ha aperto ai suoi iscritti la sua vastissima e ricchissima videoteca che, oltre a numerose rassegne dedicate a registi internazionali (qui un esaustivo riassunto), contiene un’ampia gamma di cortometraggi selezionati dalle migliori filmografie d’autori mainstream, ma anche di autori sperimentali o meno noti al grande pubblico. Per questo motivo, se non sapete cosa scegliere tra tanti titoli, «Birdmen Magazine» vi dà qualche coordinata per orientarvi con più sicurezza dentro la moltitudine di nomi e opere disponibili. Cinque cortometraggi da vedere sulla piattaforma MUBI.
Meshes of the afternoon di Maya Deren e Alexander Hammid (’14, 1943)
Incredibilmente moderne le modalità rappresentative messe in atto da Maya Deren e Alexander Hammid – moglie e marito – in questa tanto soleggiata, negli esterni, e ombreggiata, negli interni, visione di un incubo. I due coniugi sono direttamente protagonisti di questa iterata (nel montaggio e nella sceneggiatura) ricomposizione onirica, dove la macchina da presa sta al centro tra l’esperienza soggettiva della Deren e la sua trasposizione in terza persona (in cui in realtà la terza persona, come detto, è la stessa Maya Deren). Sulla scorta di altre opere cinematografiche di impronta surrealista, come per esempio L’âge d’or di Luis Buñuel o Le sang d’un poète di Jean Cocteau, il sogno è cosparso di oggetti e sequenze cariche di simbolismi dai significati spesso imperscrutabili, ciononostante c’è una storia: è la visitazione di una misteriosa figura incappucciata con uno specchio al posto della faccia (forse la morte?) e il doppio di Maya Deren. Tralasciando le teorie psicanalitiche applicabili al film – giustamente applicabili – Maya Deren e Alexander Hammid potrebbero voler raffigurare la morte del loro – come di ognuno di noi – personaggio; d’altronde i frantumi di specchio, o di schermo, sulla spiaggia richiamano, anche figurativamente, il montaliano «inganno consueto» di una realtà di per sé sempre proiettata e proiettante altre figure, altri alter-ego, che nel sogno trovano la loro possibilità di diffondersi ed eternamente ripetersi.
Antoine et Colette di François Truffaut (’30, 1962)
Nel 1959 Truffaut aveva lasciato gli spettatori sospesi sullo – e nello – sguardo di Antoine Doinel dopo la lunga corsa sulla spiaggia nel finale de Les Quatre Cents Coups. Tre anni dopo quello sguardo torna, più maturo ma sempre adolescente, nel cortometraggio Antoine et Colette, in cui il giovane ormai indipendente e impiegato presso la Philips si innamora di Colette, figlia di una buona famiglia parigina. L’innamoramento si compie tra un accelerato campo e controcampo sulle note di Berlioz, in un crescendo che mima la passione di Antoine e sembra, ironicamente, preluderne al fallimento, lo spegnimento umiliante dell’ultima scena. Antoine Doinel rinforza i legami biografici con il suo autore, perché, secondo Serge Toubiana e Antoine de Baecque, dietro al personaggio di Colette potrebbe celarsi una ragazza di nome Liliane di cui Truffaut si invaghì perdutamente durante le sue frequentazioni alla Cinémathèque française, che nel cortometraggio si trasforma in una sala da concerti. Truffaut rivive con sguardo non ancora totalmente distaccato quella delusione amorosa, riversando le sue disavventure nel personale alter-ego (Jean-Pierre Léaud).
Antoine et Colette, dello stesso anno del successo mondiale Jules et Jim, costituisce il primo episodio su cinque del film collettivo L’amour à vingt ans, a cui parteciparono Renzo Rossellini, Shintarō Ishihara, Marcel Ophüls e Andrzej Wajda.
…A Valparaíso di Joris Ivens (’24, 1963)
Sulla cima dell’«ultimo gradino prima del paradiso» vivono nelle baracche i poveri, perché più si sale, più si annaspa sui gradini delle scale, più ci si inerpica sulle colline con le funivie, più s’incontrano i secchi in cui non arriva acqua, gli stracci bianchi che asciugano al sole e al vento di Valparaíso. Joris Ivens, al tempo della realizzazione, era in Cile insieme ai suoi studenti, e il prodotto di quella “lezione” fu questo cortometraggio documentaristico, dove non mancano, come sempre nel regista olandese, punte di finzione. A colui che conosce il percorso cinematografico di Ivens le linee e movimenti geometrici, le riprese portuali, i volti dei marinai e degli abitanti colti nella loro naturale spontaneità, potrebbero ricordare produzioni precedenti come De Brug (per l’attenzione alla geometria del paesaggio e della macchina e l’ambiente marinaio) e il magnifico Regen, dove la macchina da presa s’infila, come qui, nei vicoli cittadini o dietro i finestrini dei mezzi di trasporto. Ciò che appare inedito è il contrasto tra immagine e testo: da una parte il rigore e il realismo di Joris Ivens, dall’altra lo smussamento insieme poetico e politicamente impegnato di Chris Marker, autore della sceneggiatura, molto probabilmente scritta in seguito alle riprese. Insomma …A Valparaíso si muove su doppi binari opposti, come le funivie nel loro moto di ascesa e di discesa, nello stile, nella Storia e negli spazi sociali (urbani) che rappresenta: il conflitto tra coloni e colonizzati, tra ricchi e poveri, tra l’alto e il basso.
La résurrection des natures mortes di Bertrand Mandico (’16, 2012)
In esergo a La résurrection des natures mortes Bertrand Mandico pone, quasi come una dichiarazione di poetica, la frase di Walt Disney «L’animation est l’illusion de la vie». Animazione ed illusione, cinque anni prima di Les garçons sauvages, suonano come due parole, e paradigmi, che annunciano decisamente una linea stilistica e tematica che nel lungometraggio del 2017 troverà il suo coronamento. Ma La résurrection des natures mortes ha in ogni caso elementi di autonomia rispetto al suo successore. Mandico ripropone, attraverso un’immagine sempre sul punto di saturarsi cromaticamente, le celebri sequenze animate di Eadweard Muybridge, qui citate esplicitamente con la figura del cavallo “resuscitato” grazie alle fotografie scattate dalla enigmatica protagonista Fièvre (Elina Löwensohn) e poi montate per far pulsare ancora di vita l’animale. Il cinema, sembra voler dire Mandico, ha il potere di far rivivere i corpi, gli oggetti inanimati, gli animali, grazie alle sue caratteristiche di fondo specifiche: l’immagine e il montaggio. E c’è di più, in quanto l’azione della protagonista in cerca di corpi morti e carcasse metaforizza la stessa azione del regista dallo sguardo inevitabilmente necrofilo, inesorabilmente in cerca di organismi da riportare in vita attraverso una pellicola.
The fall di Jonathan Glazer (‘7, 2019)
Se il fruscio degli alberi chiudeva, insieme al fioccare della neve, Under the skin (2013), nell’ultimo lavoro di Jonathan Glazer The fall il fruscio apre il cortometraggio. Un fruscio indotto, perché si tratta in realtà di uno scuotimento selvaggio fatto da una tribù mascherata ai danni di un futuro condannato a morte, la cui colpa è sconosciuta ed imperscrutabile. In The fall «sotto pelle» non sembra celarsi residuo di umanità, nessuna possibilità per un processo di umanizzazione, se non il lento – e inumano – risalire il pozzo senza fondo in cui il condannato è stato brutalmente impiccato e gettato. Inoltre se in Under the skin la trama di fondo vedeva un essere alieno impadronirsi di un corpo umano per uccidere i membri di una collettività, qui il procedimento è inverso: la collettività, con la sua violenza ingiustificabile e infernale, punisce l’individuo. L’elemento comune delle due opere, tuttavia, rimane l’amara quanto limpida riflessione sul ruolo della violenza all’interno del consorzio umano; Under the skin terminava con un’azione di violenza – e stupro – individuale, isolata, proprio nel momento in cui l’alieno incominciava a muovere i primi passi ver#so la sua dimensione creaturale; The fall, invece, finisce con l’individuo alienato – pura maschera – intento a scalare a piedi nudi il buco nero della giustizia collettiva. In conclusione, a far da collante tra i due film, è anche la straordinaria e inquietante colonna sonora di Mica Levi, sottofondo delle parabole (dis)umane di Jonathan Glazer.
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