
Lo sguardo di Cecilia Mangini – Una rassegna sulla grande documentarista
Dal 5 al 12 marzo, in occasione della Giornata Internazionale della Donna, i Centri Servizi Culturali della Società Umanitaria – Cineteca Sarda di Alghero, Cagliari e Carbonia e il Laboratorio di antropologia visuale “Fiorenzo Serra” di Sassari hanno organizzato una rassegna cinematografica in onore della fotografa e documentarista Cecilia Mangini, scomparsa il 21 gennaio di questo anno. Il sottotitolo della rassegna, che comprende All’armi siam fascisti, Brindisi ’65, La canta delle marane, Essere donne e Facce insieme ad altri contributi (tra cui In viaggio con Cecilia di Mariangela Barbanente), è “Lo sguardo delle donne sul reale”. Questo articolo vorrebbe essere un omaggio, una lettera spedita in ritardo a quello sguardo sul reale insieme femminile e libero, aperto e schierato, che per decenni ha indagato le tensioni della storia, perlustrato il suo fondale attraverso l’immagine e il suo potenziale politico.
Curioso parlare di “sguardo delle donne” in riferimento a Cecilia Mangini, quando in un’intervista a Federico Rossin dichiara: «per quanto riguarda lo sguardo cinematografico, io non credo ad una presunta differenza di genere». Infatti lo sguardo della Mangini gettato sul reale e sulle sue stratificazioni temporali coincide con la scelta del genere documentario: una scelta di libertà, e libertaria. Nella stessa intervista rivendica così la posizione da documentarista: «Sono convinta che il documentarista sia un cineasta assai più libero del regista di film di finzione»; sulla medesima linea, poco più avanti spiega come il documentario mantenga in sé «una permeabilità alle sorprese della realtà che la finzione non si può permettere proprio perché vincolata dal denaro». In modo arbitrario, ma non del tutto dato che i contatti con la letteratura in questo articolo saranno frequenti, riprendo una conversazione di Gianni Celati con Sarah Hill contenuta in Conversazioni del vento volatore, dove lo scrittore di Verso la foce e regista di Strada provinciale delle anime descrive in questa maniera l’essenza del documentario: «l’esposizione all’inatteso, al fuori, a una situazione contingente che diventa una dimensione esterna all’inconscio». Due visioni accomunate dall’idea del documentario come campo dell’imprevedibile, dell’inatteso e dell’imprevisto, entrambe debitrici del cinema neorealista. Sotto la cupola del neorealismo, ma non troppo, si può guardare La canta delle marane, primo film in ordine cronologico di questa rassegna (1961), dove il testo di Pier Paolo Pasolini, quasi una riscrittura minimale di Ragazzi di vita, scorre sui movimenti liberi e “anarchici” della macchina da presa, che svolazza sull’irrequietudine e lo spirito rivoluzionario dei ragazzi-bagnanti delle marrane.

In verità con Cecilia Mangini le cose si complicano, perché oltre al neorealismo, nella composizione dell’immagine, interviene l’altra grande scuola da lei assimilata nei cineclub della FICC: il cinema verità di Dziga Vertov e il formalismo di Ėjzenštejn. Ecco allora i gesti rituali ritagliati come linee geometriche delle madri in pianto contro la morte, buio assoluto e indecifrabile, in Stendalì; ecco il montaggio sincopato, jazzistico e altamente significante di Essere donne (1964) e Brindisi ’65 (1966), in cui da un lato le immagini-feticcio della pubblicità cozzano con i volti e le mani e i movimenti monotoni delle operaie e delle braccianti del sud, dall’altro una Puglia arcaica e dimenticata si scontra con il nuovo stabilimento petrolchimico di Brindisi. Dunque il montaggio unisce “in contrappunto” due mondi, si potrebbe dire due classi sociali, in conflitto, mescola dialetticamente passato e presente, immagina un futuro dapprima nelle sequenze e nei primi piani dei bambini abbandonati dai genitori al lavoro e poi in un grido di protesta finale, un imperativo verso l’azione: «Vieni, vieni a guardare» (Essere donne).
L’accostamento qui, non può che essere diretto a Franco Fortini, amico e collaboratore di Cecilia Mangini. Il rovesciamento dialettico (Ma il più distrutto destino è libertà: / odora eterna la rosa sepolta», Rosa sepolta), il movimento del passato verso il presente e di questo verso il futuro («Qualcosa comunque che non possiamo perdere / anche se ogni altra cosa è perduta / e che perpetuamente celebreremo / perché ogni cosa nasce da quella soltanto», La gioia avvenire), l’imperativo in vista della prassi e dell’azione politica («ma tu ricorda popolo ucciso mio», Varsavia 1944), la ricerca necessaria della verità e la conseguente presa di posizione («Chiunque è per l’eterno venga con me», Questo non è un grido di vittoria), sono i principali tratti che accomunano queste due grandi personalità. E Fortini difatti scrive il testo di All’armi siam fascisti! (film co-diretto con i due “Lini”, Micciché e Del Fra, nel 1962) – una decisione presa secondo il racconto della Mangini dopo aver visto le immagini della guerra in Spagna, che, tra l’altro, mi proiettano verso un altro grande documentarista del novecento: Joris Ivens e il suo The Spanish Earth. Il testo di Fortini è polifonico, tanto da richiedere tre interpreti diversi: la voce della storia, la voce che asserisce e la voce del “noi”. In All’armi siam fascisti le immagini di repertorio ribaltano il loro significato; le riprese di cinegiornali propagandistici vengono risemantizzate attraverso il montaggio e un racconto storico filtrato, appunto, dal “noi” fortiniano: Mussolini che inneggia alla guerra (al “Vincere e vinceremo”) e Hitler che sorride con la moglie vengono smentiti dai corpi distesi e congelati dei soldati in Russia, dalle vittime dei campi di sterminio, dalle città sventrate.

Cecilia e Franco
Cecilia e Franco – me li immagino così, con i loro nomi propri, affiancati – hanno condiviso anche un silenzio. Mangini che dopo gli anni 80’ smette di girare documentari, morti, secondo lei, insieme alla sua amata Arriflex; Fortini, che da Paesaggio con serpente (1984) aspetta dieci anni prima di pubblicare l’ultima e testamentaria raccolta, Composita solvantur. Forse il motivo è lo stesso: la difficoltà, in un mondo completamente vinto da quel «fascismo invisibile» tecnico e burocrate, di proteggere la verità «necessaria». Nella poesia-epilogo di Composita solvantur Fortini lascia in eredità questi ormai celeberrimi versi: «Rivolgo col bastone le foglie dei viali. / Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia. / Proteggete le nostre verità». È il segno di una fine, ma anche di un ritorno, di una speranza ancora accesa, un’induzione al cambiamento, come il cinema di Cecilia Mangini.
A questo ritorno, all’esigenza di dare una risposta e di chiederne una, e soprattutto a tracciare un discorso da Cecilia a Franco e da Franco a Cecilia, ci ha pensato anche il regista e fotografo Lorenzo Pallini, che il 28 novembre scorso ha pubblicato su OpenDDB il documentario Franco Fortini – Memorie per dopo domani, una produzione dal basso realizzata grazie all’aiuto di 225 crowdfunders. Oltre ai numerosi filmati d’archivio, alle voci e alle carte, in mezzo a Pier Vincenzo Mengaldo ed altri studiosi di Fortini, compare il ricordo amichevole e commosso di Cecilia Mangini. A detta dello stesso autore (che ha scritto un toccante articolo sul rapporto tra Mangini e Fortini) la documentarista ha deciso di leggere, di sua spontanea volontà, Canto degli ultimi partigiani; si potrebbe andare direttamente all’ultima quartina per chiudere definitivamente questo dialogo, e questo rapido omaggio: «Ma noi s’è letta negli occhi dei morti / e sulla terra faremo libertà / ma l’hanno stretta i pugni dei morti / la giustizia che si farà». E nella memoria risalgono le immagini dei partigiani in Spagna, in Italia, in Polonia e così via, riaffiora il testo di All’armi siam fascisti e le pagine personali de I cani del Sinai (e le immagini di Straub e Huillet). Si fantastica, infine, su un dialogo lontano tra Fortini e Mangini, su due mondi comunicanti e militanti.
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