
L’usignolo sul mare: infanzia, evocazione, letteratura
Il cortometraggio di Martina Mele L’usignolo sul mare è un film sul ricordo, sulla giovinezza e sui cambiamenti che si attuano nell’individuo al sopraggiungere dell’età adulta. L’anonima protagonista di mezza età, che esce dal lavoro in una giornata qualunque e in una città qualunque, incontra, come fosse il frutto di una visione, la piccola sé stessa. La sé bambina però non è un’immagine astratta, un’allucinazione di un secondo, bensì un’entità viva, un essere del tutto in grado di interagire. Così, in un dialogo apparentemente sconnesso, in cui lo spettatore è sempre posto fuori dalle cose, dalle connessioni e dalle connotazioni soggettive delle due interlocutrici, il film ha la capacità di immergerci in una narrazione immaginativa, un processo tutto mentale: l’attimo di pausa dalla frenesia dell’esistenza dell’individuo adulto all’interno della società contemporanea e il recupero dell’infanzia come mezzo di esplorazione del mondo.
Il punto, per Martina Mele, è ritrovare il “fanciullino pascoliano” che esiste in ognuno di noi; che ritorni senza essere respinto, quando meno l’uomo contemporaneo se lo aspetti. Per la Mele, i cui interessi di ricerca visuale vertono sul legame tra letteratura e cinema, la poetica di Giovanni Pascoli è un espediente perfetto per una narrazione che si costruisce sul dialogo col sé, declinato nell’incontro di due personaggi che si parlano dandosi del “noi”, dove il soggetto collettivo è in realtà un “io” sdoppiato. In questa interazione, che procede per ricordi d’infanzia, immagini, suoni e profumi, allo spettatore è concessa l’intuizione delle cose, che associa – ascoltando e vedendo il film –, per immagini e connotazioni, al ricordo del proprio passato. Della protagonista “doppia” resta così tutto comunque vago, solo qualche accenno ci è permesso di percepire: il vestitino giallo amatissimo negli anni dell’infanzia, saltare nelle pozzanghere nei giorni di pioggia e la forza dell’elemento portante che unisce tutte le connessioni, in un connubio di suoni e immagini molto ben gestito dalla regista: il mare. Risulta così evidente che la protagonista sia in realtà anch’essa un espediente, la personificazione di una condizione: l’esistenza nel mondo contemporaneo (non a caso infatti la donna non ci viene presentata, non ha nome).
L’usignolo sul mare è allora un film dal tratto tutto percettivo, soffice e delicato, curioso come della curiosità di un bambino che non si è rassegnato a crescere. L’occhio registico della Mele è sapientemente ovattato; amalgama con semplicità e naturalezza (in pieno accordo di significante con l’occhio di un bambino) le inquadrature e i dialoghi, che sono pochi, calmi, incentrati su piccoli dettagli di ricordo condivisi dalle due protagoniste.
Sebbene il cortometraggio si basi su uno spunto letterario, non è tuttavia un vero e proprio adattamento, piuttosto un processo di ampliamento visivo di un concetto tutto psicologico che trova la sua legittimazione in un espediente letterario. Da questo punto di vista, il dialogo tra arti (cinema e letteratura in questo specifico caso) si riscrive e supera l’idea dell’adattamento per lo schermo, in precedenza usata nel cinema come unica via possibile di legame tra due discipline, per approdare a un nuovo sviluppo. Non è più un film che tenta una rappresentazione visuale in senso narrativo di un’opera già esistente, ma il tentativo riuscito di costruire un’esperienza evocativa, sulla base della libera associazione del pensiero da parte del regista (e dello spettatore) a quella determinata opera.
Il film della Mele si premura non di rappresentare una vicenda umana tra tante, ma di rendere la scrittura per lo schermo veramente universale: ognuno di noi, davanti a questo cortometraggio vede e incontra sé stesso, si interroga e si riscopre. I dialoghi tra l’io adulto e l’io bambino della protagonista si sovrappongono a quelli che lo spettatore potrebbe instaurare con sé stesso. In questo modo, il lavoro di scrittura della Mele si rende davvero efficace e indubbiamente interessante nello sviluppo di una certa idea di cinema, che chiama in causa una tradizione letteraria vicina alla psicologia e alla filosofia. Martina Mele crea così un film che ci invita alla riflessione e alla riscoperta (anche) di un linguaggio che crediamo di aver dimenticato.
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