
#BirdmenConsiglia: (altri) 6 film da guardare in streaming | Parte 6
Fintanto che è stato possibile prendere posto comodamente in una sala cinematografica, ogni mese questa rubrica ha sempre cercato di compattare e consigliare un manipolo di titoli di volta in volta ritenuti i più interessanti tra quelli in uscita al cinema (spesso pure ignorando la loro circolazione in circuiti limitatissimi e d’essai). Da qui, con il conseguente confinamento e prolungamento della quarantena a un tempo forse indeterminato, cerchiamo di declinare il senso di questa rubrica rispetto alle nuove contingenze. L’obiettivo, allora, diviene quello di restituire a voi lettori le possibilità di un orientamento lungo l’intricata babilonia delle piattaforme streaming. I film di rilievo ora disponibili sono tantissimi, spesse volte anche gratuitamente. Ci è parso quindi più giusto e sensato scandire la distribuzione della rubrica non più mensilmente ma settimanalmente, e consigliare 6 film da vedere in streaming, uno per ciascuna piattaforma selezionata tra le più blasonate e seguite dagli utenti: Netflix, Prime Video, Disney+, VVVVID, MUBI e RaiPlay.
Eccoci dunque al quinto appuntamento, coi consigli settimanali del mese di aprile che portano il grande cinema nelle nostre case! Qui tutti i nostri consigli di visione.
#BirdmenConsiglia
Netflix
Good Time (2017), dei Fratelli Safdie

Svolta e affermazione oltre i circuiti (falsamente) indipendenti: ancor prima del Diamanti Grezzi (2019) col gigantesco Sandler, c’era il Good Time col brillante (non più sbrilluccicoso) Pattinson. Il film dei Safdie Brothers mette in scena la storia di un amore fraterno che collide con le conseguenze di una vita sciagurata: per consegnarsi una vita degna di essere vissuta, due fratelli tentano un’ultima rapina; ma il prevedibile fallimento fa finire in prigione il più piccolo dei due (Benny Safdie). Da qui, il fratello più grande, Connie (Robert Pattinson), si lancia al suo salvataggio, consapevole che lo stesso destino potrebbe attenderlo da un momento all’altro. Dal piglio accelerato e schizofrenico di una titanica lotta per non precipitare nella spirale di un futuro disgraziato e senza sbocchi, Good Time esonda continuamente in grande stile, ma non senza coordinazione. Funziona come la direzione di un’orchestra sinfonica vestita da crime story, col pregio più grande di un montaggio elaboratissimo che seziona accuratamente piccoli tasselli, segmenti d’immagini brevilinei, e li ricompone in una composizione raffinatissima.
Prime Video
Two Lovers (2008), di James Gray

Ci sono state altri nascondigli, nel cinema di James Gray, che pure in luoghi perfettamente geolocalizzati (non immaginati, dunque), hanno custodito silenziosamente storie dolenti di uomini lacerati nel profondo, dove il passato sofferto degli abbandoni ha lasciato solchi cicatrizzati sulla pelle. Ed eccolo qua, il più importante di essi: il quartiere di Little Odessa (che dà anche il titolo al Leone d’Argento per la miglior regia nel 1994), a Brooklyn. Non attraverso le ignote profondità spaziali (Ad Astra, 2019), ma neppure nei recessi della natura in Amazzonia (Civiltà perduta, 2016): è sui terrazzi condominiali e nei vicoli stretti che il Leonard di Joaquin Phoenix (qui straordinario) deve struggersi a causa dell’amore travolgente per Michelle (Gwyneth Paltrow), che potrebbe replicare l’abbandono mai superato della sua ex fidanzata. Dall’altra parte, c’è Sandra (Vinessa Shaw), bella ed ebrea come lui, tagliata su misura per un matrimonio che secondo le famiglie dei due s’ha proprio da fare. Non adattamento ma ispirazione alla lontana, lontanissima delle Notti bianche di Dostoevskij, il film ha la forma di un’elegia moderna che sonda a più livelli i sentimenti dell’uomo solo, come del resto accade per tutto lo straordinario (e a tratti sottovalutato) cinema di Gray.
Rai Play
Le livre d’image (2018), di Jean-Luc Godard

Condensare in uno spazio così ridotto quanto invece Godard ha rappreso nell’immersività di un film-saggio sulle immagini di oltre un secolo di Cinema, è sicuramente un’impresa impraticabile. Vi è già in partenza nel film, d’altronde, una certa irriducibilità a qualsivoglia elaborazione critica tradizionale. C’è però un filo, al suo interno, che rende evidente una qualche continuità: quello che unisce parola e immagine. Ora Godard si sopraeleva quasi al rango d’osservatore universale, dopo oltre 60 anni di ostinate teorizzazioni a calibrare il linguaggio filmico per tentare di comprendere la Storia, e poi ancora per creare utopie visive fuori di essa, e per indagare in qualche modo la natura stessa delle immagini. Sempre cripticamente, nell’apparentemente illogico susseguirsi di immagini di repertorio e sprazzi di colore scoordinati, la sua voce gracchia pronunciando versi, meditando su cavillose questioni filosofiche, e tossisce fino a non poter proseguire. Testamentario e fuori misura: che si sia arrivati, finalmente, al canto del cigno? A un adieu à l’image?
VVVVID
Sonatine (1993), di Takeshi Kitano

Tra le storie più belle della filmografia di Takeshi Kitano, vi sono certamente quelle che pescano dal variegato sottobosco criminale della Yakuza le figure di alcuni boss locali prossimi al pensionamento, alla ritirata agiata dopo averne combinate di cotte e di crude. È il caso, qui, di Murakawa (interpretato dallo stesso Beat Takeshi), spedito sotto inganno dai suoi superiori a sedare una rivolta tra gang: ma gli obiettivi da eliminare, in realtà, sono lui e i suoi compagni. Prima e dopo Sonatine, anzi per tutta la vita, Kitano dialoga con la morte, la asseconda e poi le sfugge d’un soffio. Non può fare altrettanto il suo Murakawa, ma poco importa a questo povero diavolo. È giunto il tempo dell’esilio, lontano dal Giappone ormai corrotto nei suoi valori tradizionali, e dai ritmi concitati di Violent Cop, Boiling Point e Hana-bi: non c’è più spazio per le scorribande e le sparatorie, ma solo per improvvisarsi lottatori di sumo in spiaggia al calar del sole, per bighellonare e giocare coi compagni da veri idioti in puro stile Kitano, e forse per innamorarsi (un poco) per l’ultima volta, in attesa della morte inevitabile.
Disney Plus
Tuck Everlasting – Vivere per sempre (2002), di Jay Russell

A causa di un forte litigio con la madre, la quindicenne Winnie (una ancora piccolissima Alexis Bledel) fugge di casa per rintanarsi in un bosco, dove farà casualmente la conoscenza del giovane Jesse e dei suoi genitori, i signori Tuck. C’è però qualcosa di particolare in questa famiglia: i suoi membri sono diventati immortali dopo aver bevuto da una fonte lì nel bosco, e da allora ne sono diventati custodi. Con l’incombere di una minaccia per la fonte, la piccola Winnie, affascinata e poi innamorata di Jesse, dovrà quindi scegliere se diventare anch’ella immortale, o tornare dalla sua famiglia e dedicarsi a un’esistenza che custodisce il suo significato più autentico proprio nella caducità del tempo. Il film di Jay Russell ha col tempo pagato lo scotto di un’impostazione forse troppo retorica, tentando di approntare temi di ampio respiro (quali, appunto, il significato dell’esistenza e dello scorrere del tempo) restando tuttavia sulla superficie più accomodante del teen romance. Eppure, gli ingredienti per una storia dall’altissimo tasso di godibilità e con una efficace sospensione dell’incredulità ci sono tutti. E tanto basta.
Mubi
A Russian Youth (2019), di Alexander Zolotukhin

Tanti sono stati i maestri del cinema russo che hanno affrontato il tema dei due conflitti mondiali dal punto di vista di giovani soldati, spesso alle prime armi e disorientati. Ed è da questo repertorio consolidato che A Russian Youth attinge per plasmare il suo protagonista, a mo’ di quello del più grande capolavoro di tutti i tempi del cinema di guerra, Va’ e vedi (1985) di Elem Klimov. Al di là di simili (e importanti) familiarità, il film taglia subito via la visibilità diretta della guerra, nel procurare per errore al suo protagonista una cecità che lo “assolve” dall’eroismo della guerra, e fargli fare invece di essa un’esperienza più tattile, più percettiva. Assieme a una componente visiva curata nella sua granulosità, sensibilmente sporca e logora come il conflitto che racconta (da qui, ancora, un riferimento a Klimov), si associano in parallelo le riprese relative a un’orchestra sinfonica di San Pietroburgo. Sono queste immagini distanti di quasi cent’anni nel futuro, tracce documentarie che raccontano un’altra Russia, un altro mondo. Ma si tratta davvero di due film distinti e sovrapposti tra loro, seppur sfalsati? O il passo della Storia ha lasciato una stessa impronta secolare, che dallo sgomento del piccolo soldato giunge fino alle melodie trionfanti degli archi? A Russian Youth è una incredibile opera prima partorita da un giovane regista sovietico che, come il più celebre Balagov, è stato anch’egli allievo del grande maestro Sokurov.
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