
Il plongée – Lo sguardo inabissato tra onnipotenza e meta-discorsività
Per plongée si intende un tipo di inquadratura cinematografica in cui i soggetti e gli ambienti in campo sono catturati dall’alto, con un punto di vista rivolto verso il basso. L’inclinazione, l’angolazione e infine la posizione della macchina da presa sono quindi elementi fondamentali per distinguere un plongèe da un totale o da una panoramica.
Nel cinema, il plongée è un tipo di inquadratura ardita e rischiosa, perché all’apparenza ammicca ad un orizzonte visivo non prettamente cinematografico. Fotografi come Alexandr Rodchenko, Andrè Kertèsz, Margaret Bourke-White, Boris Ignatovich e, in tempi più recenti, Massimo Sestini e soprattutto Olivo Barbieri con il progetto Site Specific (2003), hanno adottato lo sguardo dall’alto per catturare folle o soggetti singoli, reticoli stradali o istanti di vita pubblica fugaci ma emblematici. Nel campo delle immagini in movimento però, il plongèe si problematizza, caricandosi di peculiarità narrative ed espressive diverse.

Plongée e continuità immersiva
Quando fruiamo qualsiasi opera cinematografica, sappiamo di essere necessariamente legati al punto di vista della macchina da presa, nostro unico pertugio sul mondo di finzione sullo schermo. L’inquadratura, oltre ad essere l’unità linguistica peculiare del film tutto, è quindi anche una legge a cui non possiamo non sottostare, un confine coatto non solo tra campo e fuori-campo ma anche tra rappresentazione e set cinematografico. Nella Hollywood classica, a dominare il prodotto-film era la vicenda. Secondo John Huston, tutto il processo creativo era da asservire all’unica resa dell’idea. La regia, la consequenzialità dei piani e più in generale lo sguardo sulla storia doveva dunque essere silenzioso, trasparente, comodo e spontaneo veicolo per l’occhio dello spettatore sulla diegesi. Di conseguenza, la scala dei piani era quasi esclusivamente calibrata su una visione oggettiva “a misura d’uomo”.
In questo scenario, il plongée è quindi un graffio alla continuità oggettiva dell’istanza narrante, perché preleva il punto di vista dalla sua natura terrestre e lo innalza. Si parla di oggettiva irreale, un’inquadratura cioè tesa a mostrare una porzione di realtà, ma con uno sguardo anomalo rispetto alla consuetudine, che trascende cioè la linearità dell’asse comunicativo emittente-ricettore. Se con totali, piani americani o primi piani lo spettatore ha l’illusione di guardare la scena in modo diretto, col plongée l’istanza narrante si impone e palesa come terzo incomodo tra finzione e pubblico. È curioso quindi notare come questa inquadratura ad immersione, sia di fatto uno scoglio per un tipo di immersione spettatoriale non visiva e legata all’universo finzionale del film. Con il plongée, lo spettatore è quindi tendenzialmente attivo e ha più coscienza della sua alterità rispetto al film tutto.

Plongée e planimetria
Quando guardiamo le auto delle malcapitate famiglie protagoniste di Shining (1980) e Funny games (1997, 2007) addentrarsi nella vegetazione negli incipit dei film, non possiamo dimenticarci della macchina da presa, proprio per il suo volteggiare aereo, distante da qualsiasi possibilità umana. Sono inquadrature introduttive, tese a voler contestualizzare i protagonisti dell’opera all’interno di un ambiente, un sotto-mondo, o anche semplicemente un’azione (in questo caso, il percorrere una strada in auto).
Questo carattere inaugurale del plongée è evidente in Dogville (2003) di Lars Von Trier, film basato sulla costruzione di un universo chiuso, soffocante, predeterminato nella sua inquietante geografia fantasmatica. In questo caso, l’inquadratura zenitale è quindi funzionale al racconto, una sorta di totale sovvertito, in cui a quella dell’altezza dei corpi, viene preferita la visione dello spazio tutto nella sua planimetria. Come per indugiare sull’ambiente prima di raccontarne le storie che lo popolano.

Come una sorta di prefazione da remoto, la macchina si inabissa su reticoli metropolitani, muovendosi sulle strade e le folle, come a voler cercare e selezionare la vicenda che si vuole raccontare. Un esempio di questo approccio è, tra i tanti, l’incipit di Edward mani di forbice (1990) di Tim Burton, in cui le villette a schiera pastello delineano il sotto-mondo stilizzato e cartoonesco che ospiterà Edward, prima che la macchina da presa si concentri, per opposizione, sulla sua tetra abitazione.
Il plongée come composizione visiva
Da un punto di vista artigianalmente narrativo poi, quando la scena si sviluppa in profondità, il plongèe ha il valore informativo che avrebbe un campo lungo in una scena di guerra, ad esempio. Nel capolavoro di animazione Isle of dogs (2018) di Wes Anderson, notiamo un plongèe nella scena in cui i protagonisti arrivano a ridosso di un pericoloso burrone. Per il regista de I Tenembaum poi, il plongèe è un’ottima occasione per attingere a quel tipo di graficismo simmetrico che lo connota da sempre.

Dal punto di vista della composizione del quadro, grande pregio assumono i plongée fissi che Alejandro Jodorowsky utilizza ne La Montagna sacra (1973), in cui il corpo sacrificale ed eletto del ladro protagonista si incastona nei motivi geometrici e metafisici della scenografia optical claustrofobica, la cui potenzialità immaginifica si esprime solo da una veduta dall’alto che chiarifichi la centralità del personaggio nella scena. Le forme circolari presenti nelle pavimentazioni della torre sono chiari riferimenti alla forma dell’enneagramma, un simbolo geometrico affine al mondo della psicologia e dell’esoterismo. In questo caso, il plongée non è solo occasione di una virtuosità visuale o di una composizione del quadro minuziosa e precisa come quella di Anderson, ma piuttosto un ponte linguistico che unisce storia e pensiero autorale, vicenda e significato metafisico.

Plongée e extracorporeo: morte ed estasi
Proprio i concetti di metafisica e di trascendentale sono affini all’espediente del plongée proprio per la sua connotazione irreale, aerea e quindi in qualche modo angelica, slegata dalla corporeità umana. La correlazione tra plongée e morte è più che mai chiara nella scena finale di Taxi driver (1976) di Martin Scorsese, in cui con un movimento di macchina rivolto verso il basso si scorge la stanza in cui il protagonista si è appena tolto la vita.
Allo stesso modo, la voce post-mortem di Lester Burnham ci introduce in American beauty (2000) di Sam Mendes planando sulla città con un’inquadratura in bilico tra plongée e panoramica. Nello stesso film, il frequente uso dei plongèe sarà finalizzato al racconto degli immaginifici momenti di introspezione affascinata del protagonista, anche qui uno spazio irreale, di fantasticazione, come nella celeberrima inquadratura su Mena Suvari nuda su un letto di petali di rosa.

Uno dei registi della contemporaneità che ha usato più di frequente il plongée per restituire una sensazione di uscita da sé e quindi anche di morte è di certo il discusso e virtuoso Gaspar Noè. In Enter the void (2009), il protagonista continua a seguire la tragica vita della sorella con un plongée mobile quasi ininterrotto, inaugurato proprio nel momento dell’omicidio, con un’inquadratura del corpo morto di lui, disteso sul fetido pavimento di un bagno.
In Love (2015) o Climax (2018), il plongeè dall’alto da una parte esemplifica l’attenzione alla composizione virtuosa del quadro, dall’altra richiama ad una sensazione estatica, del sesso come del ballo, in bilico tra il piacere dionisiaco e la sensazione di uscire da sé e quindi potersi scorgere da fuori.

Morte e immaginazione sono anche i concetti principali della drammatica sequenza in cui in The hours (2002) di Stephen Daldry, il personaggio interpretato da Julienne Moore medita sul suicidio, nello spazio di una fredda camera d’albergo, reso corrispettivo emotivo tramite l’allagamento reale della camera. Impossibile non citare poi, i frequenti rimandi della cinematografia di Lars Von Trier ad Ophelia, opera di John Everett Millais, in cui il corpo di Kirsten Dunst in Melancholia (2011) e quello di Charlotte Gainsburg in Antichrist (2009) viene ripreso dall’alto, disteso su un letto d’acqua.
Allo stesso modo, Yorgos Lanthimos nel plongée che compie sul bambino della famiglia protagonista de Il sacrificio del cervo sacro (2017): una sorta di baratro da remoto che prelude alla spirale vertiginosa di eventi inspiegabilmente tragici che vesserà il nucleo familiare. Come lui, Nicolas Winding Refn in The neon demon (2016), sulla morte – non a caso sulla profondità di una piscina vuota – della protagonista e Sofia Coppola – sempre citando Ophelia – ne Il giardino delle vergini suicidi (1999). Insomma, l’inquadratura zenitale sembra lo sguardo prediletto verso il corpo morto o morente, proprio per il suo rimando all’extra-corporeo, al trascendente, ma anche alla possibilità di cattura della totalità del corpo disteso.

Il plongée motivato: sogno e dettaglio oggettuale
Nonostante ciò, il plongée non è da intendersi ad uso esclusivo di un tipo di sguardo non prettamente terreno o umano e può inserirsi nel discorso cinematografico in modo meno ardito e mimetico. Questo aspetto è evidente quando l’inquadratura all’ingiù diventa paradossalmente motivata e in qualche modo soggettivata. Pensiamo al sognante incipit di 8 1/2 (1963) di Fellini: quello che vediamo è un plongée ma anche una vera e propria soggettiva dell’uomo volante che, all’interno della cornice di certo irreale del sogno, vede il suo piede legato alla fune prima di precipitare nel mare.

In alti casi particolari, il plongée corrisponde ad una vera e propria soggettiva o falsa-soggettiva, in particolare nelle inquadrature che hanno come protagonisti degli oggetti. I dettagli oggettuali di Wes Anderson ne I Tenembaum (2001), di Jim Jarmush in Coffee and Cigarettes (2003) o quelli sulle leccornie e i vizi in Marie Antoniette (2006) di Sofia Coppola, possono essere intesi come semplice raffigurazione, ma va anche denotata la scelta di escludere qualsiasi profondità di campo dal quadro per mettere in risalto l’oggetto, di risaltarlo in relazione alle mani di chi ne fa uso o all’ambiente circostante.

Brian De Palma, grande estimatore e fruitore del plongée, usa l’inquadratura zenitale in modo funzionale e informativo, narrativamente legato alla suspence, come nella temibile scena del secchio di vernice rossa in Carrie – Lo sguardo di satana (1976). È evidente, in film come Gli Intoccabili (1987) o Un vestito per uccidere (1980), come le angolazione ardite dalla macchina da presa omaggino il primo dei maestri a usare massivamente questo tipo di inquadrature: Orson Welles.

Il plongée come espressione di giudizio sul personaggio
Il cineasta americano, in Quarto Potere (1941) e molti altri film, mira a comunicare una sensazione di sottomissione o dominanza del soggetto inquadrato rispetto al contesto, alla storia e anche al pubblico, tramite l’utilizzo dei plongée e dei suoi controcampi verticali: i contro-plongée. Già, perché l’analisi filmica più istituzionale, in gran parte derivata dallo studio dei film di Welles, identifica nell’uso queste inquadrature lontane dal baricentro fisico del soggetto e caratterizzate da angolazioni all’insù o all’ingiù, un tipo di giudizio dell’istanza narrante sul personaggio in questione.

In fondo, quando guardiamo il personaggio interpretato da Dakota Johnson nel remake d’autore Suspiria (2018) di Luca Guadagnino, durante le inquietanti sessioni di prove di ballo, la percepiamo, scorgendone solo la testa e il corpo schiacciato e bidimensionalizzato, come in pericolo o in balìa. Specularmente, il soggetto ripreso da un contro-plongée appare titanico e tirannico sulla scena. È questo il caso di molti dei protagonisti di Tarantino che, con fare irrisorio, guardano la vittima dall’alto verso il basso, incuranti della sua sofferenza, come il malcapitato poliziotto di Le Iene (1992) o il terribile Hans Landa di Bastardi Senza Gloria (2009) prima della marcatura con la svastica.

Allo stesso modo, la zona montuosa in cui le malcapitate protagoniste di Picnic ad Hanging Rock (1975) di Peter Weir si perdono è ripreso da un contro-plongée in cui la silhouette del monte sembra una creatura temibile che incombe sulle ragazze, così come nel capolavoro di Dreyer La passione di Giovanna D’Arco (1928), i volti degli inquisitori sono spesso catturati da contro-plongée molto ravvicinati, ad accentuarne la mostruosità e la tendenza predatoria.

Il plongée è dunque un’inquadratura che oltre la sua apparenza alienante e meta-discorsiva, conserva grandi potenzialità espressive e simboliche. In fondo, non è altro che la trasposizione verticale dei più ruotinari campi e contro-campi sull’asse a cui siamo abituati e per questo è molto legato alla prossemica, alla disposizione dei corpi degli attori. Possono essere minuscoli e persi in un parcheggio innevato come in Fargo (1996), oppure scultorei e soli come in Shame (2011), ma in ogni caso sono dominati e carpiti nella loro totalità dal nostro sguardo.
Tra restituzione ortografica di una città e sguardo onirico e deformato al mondo sottostante, il plongée riesce a farci sentire onnipotenti come quando guardiamo Google Maps o un plastico in miniatura, ma anche in balìa di un’istanza narrante sovversiva che ci ricorda come la nostra prospettiva visiva fuori dal cinema, sia quotidianamente limitata. Ma in fondo cos’è il cinema, se non la possibilità di delineare uno sguardo nuovo sul mondo?
Bibliografia:
Analisi del film, F. Casetti e F. Di Chio, Bompiani.
Il cinema e l’estetica dell’intensità, P. Bertetto, Mimesis Edizioni.
Cinema e arti visive, A. Costa, Giulio Einaudi.
Fotografia e arti visive, C. Marra, Carocci Editore.
Introduzione all’estetica del cinema, D. Chateau, Lindau.
L’inquadratura, E. Siety, Lindau.
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