
The Green Knight – Un mirabile racconto di formazione, seduzione, decapitazione
Raccontami qualcosa di te in modo che possa conoscerti, chiede Artù al nipote. Ma il giovane Gawain, che passa le giornate tra sbornie e lupanari, realizza di non avere nulla da raccontare ai leggendari cavalieri della tavola rotonda. Nel silenzio con cui si dichiara indegno di essere conosciuto, Gawain conosce però la distanza che lo separa dal codice cavalleresco.

Quel silenzio è uno specchio in cui Gawain si vede biforcato: di qua dal vetro un vitellone, di là il valente cavaliere che vorrebbe diventare, vicino e irraggiungibile come tutti i riflessi. O forse più vicino del previsto, perché il Cavaliere Verde, respiro di foglie secche e pelle di corteccia, una sorta di Babbo Natale terrificante, irrompe a Camelot e sfida i cavalieri: Chi mi batte in duello avrà in premio la mia ascia magica, ma a un anno esatto da oggi, nel giorno di Natale, dovrà raggiungermi alla Green Chapel, nel lontano nord, e ricevere lo stesso colpo che mi ha inferto.
Tra gli applausi della corte, Gawain avanza contro il Cavaliere Verde disarmato e lo decapita. Quello però si alza, raccoglie la testa e fugge sghignazzando. E un anno passa in fretta tra orge e bagordi. Prossimi a Natale, Artù lo incalza a partire verso il suo destino di morte: “Zio, perché mi spingi a questo?” / “È sbagliato desiderare per te la grandezza?”

Parte allora la quête, destino di ogni cavaliere errante, viaggio archetipico in cui una ricerca impossibile diventa una possibile ricerca di sé stessi, della propria identità forgiata tra il martello della moralità dominante e la vasta incudine del mondo, che nella fotografia caliginosa di A.D. Palermo appare proprio così: duro, brullo, scabro, massiccio, inattaccabile.
Tra martello e incudine sarebbe il posto della spada, se il Nostro non la perdesse immediatamente insieme a viveri e cavallo, derubato da briganti (qualcuno ha detto Barry Lyndon?) capitanati da un beffardo, e come suo solito inquietante, Barry Keoghan (Il sacrificio del cervo sacro, Yorgos Lanthimos 2017). E poi spettri, vergini decollate, giganti nudi, funghi allucinogeni, castelli fatati, camere oscure e volpi parlanti, in un profilmico tracimante che minaccia costantemente di sdilinquirsi in sogno, presagio, visione, illusione, evocando all’occasione un celebre piano sequenza di Mizoguchi (il ritorno a casa di Genjuro ne I racconti della luna pallida d’agosto, 1953).
Il talento di Lowery, come già dimostrato nello splendido e commovente A Ghost Story (2017), è questa innata capacità di allentare a piacimento le maglie del reale permettendo al soprannaturale, al merveilleux di saturare la scena. Parlando di saturazioni, intrigante lo statuto che il fatto cromatico assume in The Green Knight. Non mere associazioni simboliche, ma una ricorsività pregante che esemplifica il principio ejzensteiniano della “generalizzazione cromatica,” ovvero la coscienza dell’autonomia del colore rispetto agli oggetti che lo manifestano, cioè che il colore nel testo filmico acquista un senso autonomo non riducibile né riconducibile agli oggetti colorati. Il colore insomma è già di per sé un’azione, ineludibile e inesauribile nella sua intensità figurativa.

Ovviamente in The Green Knight riveste un ruolo centrale il verde, anche per la sua complementarietà al rosso, come evidenzia il monologo di Lady Hautdesert: “Rosso è il colore della lussuria, ma il verde è ciò che la lussuria si lascia dietro, nel cuore, nel grembo. Verde è ciò che resta quando il desiderio si spegne, quando la passione muore, e quando anche noi moriamo.” Verde come l’erba che ricopre le orme, le tombe, come la marcescenza, il colore del tempo e dell’omnia vanitas.
Non meno importante è l’arancio, quello vivo e squillante del mantello di Gawain, corredo tangibile della sua virtù cavalleresca. Arancio è anche la regia corona, il manto della volpe, e il viraggio asfissiante degli ultimi passi che separano Gawain dalla Green Chapel, momento in cui la pressione virulenta dell’etica arturiana invade e domina lo schermo, e sembra avvolgersi intorno al giovane come un sudario.

O come un grembo materno: dall’incipit sino all’ultimo fotogramma, Gawain è infatti vittima di un intrigo ordito dalla madre, la strega Morgan le Fay (sì, la celebre Fata Morgana). Lei evoca il Cavaliere Verde, sempre lei gli dona una cintura fatata per proteggerlo dal mostro. Come nel romanzo trecentesco, esempio di proto-femminismo, le donne si rivelano i personaggi più potenti del racconto, orientando il destino e le scelte degli uomini. La rinuncia finale alla cintura rievoca lo strappo del cordone ombelicale, il gesto di un uomo maturo, pronto a camminare sui suoi passi, a testa alta (e magari attaccata al collo), ma il film taglia maliziosamente sui titoli di coda.
Del poema ispiratore Lowery imita anche la struttura, imbastendo una giostra di rime e corrispondenze giocata sul tema e la figura del doppio: il verde e l’arancio, il rischio e l’onore, la vista e la visione, la realtà e il sogno, la donna e l’uomo, la nobildonna e la prostituta, il ritratto e il cavaliere, la gloria e la fugacità, la civiltà e la natura, la croce e il paganesimo, l’etica e gli istinti. La Camelot cadaverica di un Artù afflitto da astenia e mal di denti si riduce quindi a gioco (altro concetto centrale) virile, un trastullo solenne di cui le donne sono mute testimoni e segrete vincitrici, esponendo tutte le contraddizioni dell’etica cavalleresca con una sensibilità e un acume totalmente assenti nel rozzo didascalismo del recente The Last Duel (Ridley Scott 2021).

L’assurda vanità dell’etica cavalleresca era già stata raccontata dall’austero Lancillotto e Ginevra (Robert Bresson 1974). Ma la sintassi fieramente visionaria di The Green Knight, orientata alla decostruzione del modello eroico in senso umanista, richiama piuttosto L’ultima tentazione di Cristo (Martin Scorsese 1988). Rispetto ai riferimenti illustri però, l’adattamento di Lowery prende una piega ironica, beffarda, trascinato dalla maschera ambigua di Alicia Vikander, dalla verve comica di Dev Patel e dal ponderato accostamento di immaginario medievale (chansons, miniature, icone, leggende) e immaginario pop (genere fantasy, horror, Santa Claus). Ne esce insomma un racconto semplice e universale, poderoso, totalmente falso e profondamente vero. In altre parole, un mito.

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[…] Il terrificante Cavaliere Verde irrompe a Camelot e sfida i cavalieri della tavola rotonda: chi lo batte, subirà dopo un anno lo stesso fendente. Il giovane e incauto Gawain gli mozza la testa con un colpo secco. Quindi parte in cerca di sé stesso, pronto anche a perdersi. Lowery adatta un poema medievale in un Bildungsfilm avventuroso, mélange di horror e fantasy, iconografia religiosa e immaginario pop. Ordinato da una sintassi fieramente visionaria, usa il colore come un evento, in un profilmico tracimante che minaccia costantemente di sdilinquirsi in sogno, presagio, visione, illusione, tra spettri, giganti, allucinazioni, doppelgänger e volpi parlanti. Rudi Capra / Leggi la recensione […]