
Climax: l’esperienza della psiche alterata
ATTENZIONE: CONTIENE SPOILER.
Ci sono film la cui visione costituisce un vero e proprio vissuto che non si limita alle afferenze visive e uditive che dallo schermo arrivano ai sensi di noi spettatori. Film che riescono a creare una forma di esperienza cinematografica più profonda, dando alla mente un senso di immersione tale che la nostra sfera sensoriale aderisce perfettamente alla realtà filmica.
Parlo di qualcosa che va oltre al puro coinvolgimento emotivo-empatico durante il quale avviene comunque un processo mentale in cui rimane sempre qualcosa di altro a noi (lo schermo, il personaggio, il contesto d’azione); in Climax (2018), invece, è come se non ci fosse alcuna distanza tra l’occhio della telecamera e quello dello spettatore. Come avveniva già in Enter the Void (2009), Gaspar Noé – attraverso i sui virtuosismi formali – arriva ad azzerare la distanza tra noi e lo schermo, alterando la percezione spaziale e il nostro orientamento nei luoghi del film. Così la telecamera si muove barcollante tra gli stretti corridoi illuminati da luci al neon, seguendo i personaggi nel loro caotico movimento, oppure ruota di 180 gradi – come avviene nel finale, dove si raggiunge l’apice di questa sensazione di immedesimazione nel contesto frastornante dell’opera.

Componente fondamentale di questa esperienza sono le musiche e i suoni: il ronzio intermittente di una luce al neon, il ritmo di un pezzo techno, i pianti e le urla di frustrazione e disperazione. Risuonando quasi incessantemente, questa composizione rapsodica va a creare una saturazione a livello percettivo che sembra volerci impedire di non “essere dentro” a quello che ci viene mostrato. Non è possibile pensare a quello che vediamo, l’unica azione possibile è viverlo in quel preciso momento.
Gaspar Noé realizza tutto questo partendo da un soggetto estremamente semplice: un gruppo di ballerini si riunisce per provare un nuovo spettacolo, per celebrare la fine delle prove viene organizzata una festa dove verrà servita sangria in cui qualcuno ha versato LSD. Da qui lo sviluppo della vicenda ha soltanto un ruolo funzionale, al punto che lo stesso regista ha ammesso la non esistenza di una sceneggiatura di partenza, e che essa si è progressivamente sviluppata nel corso delle riprese con la collaborazione degli attori.
È presente nel film una suddivisione interna in diversi segmenti, scandita dalla distribuzione dei titoli di testa, ognuno molto diverso dall’altro. Dopo una prima sequenza prolettica (anticipazione dell’epilogo), appare la prima tranche di titoli di testa seguita da diversi minuti di quella che sembra essere una sessione di casting tenuta dal regista stesso. Al di là della presentazione dei vari personaggi, quello che attira la curiosità sono i libri e le svariate videocassette che appaiono ai lati dello schermo; essi sembrano volerci suggerire dove nascono le radici di quello che stiamo per vedere.

Le interviste terminano. Il suono acuto di una sirena in lontananza si fa sempre più forte e si sovrappone al brano in sottofondo (la calzante Supernature di Cerrone), che accompagna la seconda tranche di titoli di testa.
Questi aprono il palco ad un ballo al tempo stesso armonioso nella coreografia e caotico nella vitalità dei singoli, carico di una tensione tra il violento e l’erotico, un equilibrio tra l’energia incanalata nel gesto e l’autocontrollo del proprio corpo nell’attuarlo.

La terza parte dei titoli di testa (con i nomi dei ballerini e degli autori delle musiche) dà il via alla vera e propria precipitazione degli eventi.
A questo punto è impossibile mantenere un approccio analitico, quello che vediamo sfugge progressivamente alla normale logica del pensiero lucido, assumendo i caratteri di un delirio schizofreniforme dettato dagli effetti psicotropi dell’LSD: paranoie e fantasie, l’emergere di pulsioni e desideri sopiti, la perdita di un normale senso del tempo e dello spazio, crisi isteriche, allucinazioni e corpi che si dimenano.

«La vita è un’illusione fugace. Nascere è un’opportunità unica. Vivere è un’impossibilità collettiva. Morire è un’esperienza straordinaria.»
Gaspar Noé inchioda testualmente sullo schermo i concetti che intessono il file rouge su cui si muovono e contorcono i corpi e le menti dei membri del corpo di ballo.
L’illusione fugace della vita è nella momentanea armonia e coesione tra i membri del gruppo durante la danza iniziale, nell’aborto che una delle protagoniste viene costretta ad autoindursi negando l’opportunità unica della nascita. L’impossibilità della vita collettiva è nel delirio delle menti e dei corpi dei ballerini dopo che l’LSD ha prodotto i suoi effetti togliendo i freni alla spinta delle pulsioni, delle paure e dei desideri proibiti, normalmente repressi dalle norme sociali. La straordinarietà della morte sta nella rottura di questa impossibilità di vita, nella troncatura netta del climax di tensione prodotto dal film nel momento in cui la polizia irrompe nell’edificio, facendo entrare la luce bianca di un paesaggio innevato che rompe la continuità del buio e del senso di oppressione in cui era inesorabilmente sprofondato il film.

Climax, proseguendo sulla scia dei precedenti lavori del regista, costituisce quindi un’esperienza immersiva in cui istinti, tensioni e desideri della psiche umana vengono messi in scena e indagati dal regista non con un’intenzione provocatoria fine a se stessa. Un ritratto quasi documentaristico. Istinti, tensioni e desideri della psiche umana descritti e mostrati per quello che sono, al di là di ogni possibile filtro precostituito.
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