
The Truman Show e Reality – Realtà dello Spettacolo e Spettacolo della Realtà
La scena più bella la ricordiamo tutti. La barca veleggia verso l’orizzonte e a un certo punto il bompresso spacca la crosta del cielo, lo penetra come un coltello. Truman allunga la mano e tocca l’azzurro. Il velo si è rotto, l’incantesimo è sciolto. Truman può finalmente scendere dalla barca, che si chiama Santa Maria, e approdare al Nuovo Mondo, la realtà reale, che è l’opposto del reality in cui ha vissuto fino a quel momento.
Era il 1998. E siccome il cinema funziona come lo scudo di Perseo, uno specchio incantato in cui possiamo fissare senza timore la mostruosità del reale, allora leggendo come cambiano le immagini del cinema possiamo capire come cambia il mondo. Il cinema di Peter Weir è ancora un cinema della modernità, in cui i personaggi si interrogano a partire da una perdita, un trauma che irrompe con violenza e sconvolge, straccia le maglie della realtà. La sparizione delle adolescenti di Picnic a Hanging Rock, la guerra ne Gli anni spezzati, la perdita dell’innocenza in L’attimo fuggente e la perdita dell’orientamento in The Truman Show. Storie che si nutrono di un conflitto, un inesorabile scarto tra ciò che è verosimile, giusto, reale e ciò che è inverosimile, ingiusto, irreale.

Il confronto diventa illuminante se accanto a The Truman Show consideriamo un film come Reality di Matteo Garrone, del 2012. Al contrario dei personaggi di Weir, quelli di Garrone tentano di adattarsi docilmente a una realtà contaminata dall’assurdo e dal meraviglioso. Al netto delle fiabe, il titolo dove questa tendenza affiora più chiaramente è Primo amore (2004), storia di Sonia che si innamora di Vittorio, un orafo ossessionato dalla magrezza che la porta per gradi all’anoressia. Reality affronta invece la storia di Luciano, un pescivendolo che perde tutti i suoi averi e la famiglia pur di partecipare al Grande Fratello.
In entrambi i titoli i personaggi scelgono di definirsi tramite quelle che il sociologo Luhmann chiama “osservazioni di second’ordine”, ovvero non osservazioni dirette (di prim’ordine) della realtà ma osservazioni su come la realtà viene osservata dai media. Così Sonia si osserva attraverso gli occhi di Vittorio e vede soltanto un ideale di bellezza mortifero. E Luciano si osserva attraverso gli occhi dei media e non vede più le differenze tra realtà e finzione, ma solo il profilo vago e indistinto di un’iperrealtà in cui vero e falso sono mescolati come la calce ai mattoni.
L’iperrealtà, secondo una definizione di Baudrillard, è un “immaginario né vero né falso, è una macchina di dissuasione messa in scena per rigenerare in contro-campo la finzione del reale”. Perciò, della finzione ha il metodo: la costruzione, la simulazione, la messinscena e l’artificio. E del reale ha la sostanza: i fatti, le conseguenze, le ripercussioni. Lo testimonia il fatto che entrambi i film sono ispirati a fatti di cronaca: una realtà più assurda e meravigliosa della fiaba, della fantasia.
Così il confronto tra The Truman Show e Reality, divisi da appena quattordici anni, diventa un confronto tra due epoche, due narrazioni del mondo, moderno e postmoderno. Al movimento centrifugo di Truman che sfonda l’orizzonte risponde il movimento centripeto di Luciano che cerca ansiosamente il centro dell’inquadratura, il suo nucleo recondito e irraggiungibile, il punto cieco che non osserva nulla perché è osservato da tutti. Come lo schiavo della caverna di Platone, Truman (True-man) parte dal falso per arrivare al vero. Il suo tragitto è la fuga da un enorme grembo in cui il padre dello show, l’artista-demiurgo Christof, quasi un’icona del divino, vorrebbe custodirlo per tutta la vita in un Eden iperreale, impedendogli una nascita autentica. Nel finale, i campi lunghi giocati su trompe-l’oeil magrittiani e sforamenti prospettici richiamano proprio la rottura del velo, la fine della gestazione mediatica a cui Truman era sottoposto.

Al contrario, la parabola di Luciano segnala il desiderio incestuoso di un regresso uterino, laddove “incestuoso” in chiave astratta implica il rifiuto di limitarsi in quanto individuo e relazionarsi con l’Altro, per soddisfare invece la spinta psicotica a essere-tutto, avere-tutto, godere-tutto, in quella inerte e appagata beatitudine che è la condizione di un feto ancora unito alla madre. Luciano insomma, osservandosi con gli occhi adoranti dello sguardo massmediale cede alla tentazione di farsi idolo, immagine illusoria del divino – e difatti nel finale fugge da una processione religiosa per raggiungere la casa del Grande Fratello. La follia di Luciano è la stessa di Don Chisciotte, vaga confuso e vede in tutti gli oggetti simboli di trame occulte, come il grillo scambiato per una telecamera.
In realtà non si tratta di simboli ma di simulacri, perché non rimandano a nulla: sempre Baudrillard avvertiva negli anni ’70 che la realtà sarebbe scomparsa, inghiottita da un’iperrealtà popolata di simulacri: “il simulacro non è mai ciò che nasconde la verità; ma è la verità che nasconde il fatto che non ve n’è alcuna.” Proprio questa realtà fantasmatica, simulacrale, inghiotte Luciano nell’inquadratura conclusiva che costituisce, in relazione al finale di The Truman Show, uno splendido e polemico contrappunto: un plongée che si allontana, rimpicciolendo Luciano, spostandolo sempre più al centro, sdraiato sopra un lettino luminoso mentre la città notturna si allarga intorno a lui come un grembo enorme, buio e sterile, da cui non esiste possibilità di fuga o di rinascita.

Così The Truman Show, nel solco di Quinto potere di Sidney Lumet (1976), suggerisce che la libertà è ancora concepibile come uno squarcio nell’immagine, una crepa o addirittura una porta invisibile in una realtà apparentemente liscia e omogenea come uno specchio.
Mentre Reality descrive la realtà come un’immensa casa degli specchi in cui l’individuo contempla estasiato la propria immagine moltiplicata, osservata, trasformata in idolo. “Idolo”, dal greco eidolon, che indicava la forma fantasmatica che non rinvia ad alcuna realtà. Appunto, un simulacro.

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