
Meanwhile – Sospesi sull’idea di cliffhanger
≪Ed ecco sorgere sulla nostra rotta un’ammantata figura umana, di proporzioni ben più vaste di qualunque abitante della Terra. E la pelle di questa figura aveva il colore delle nevi immacolate≫.
Con queste parole si chiudeva il romanzo di Edgar Allan Poe Le avventure di Gordon Pym, pubblicato inizialmente nel 1837 a puntate. Un finale che oggi potremmo definire aperto, tendente a richiamare nello spettatore l’attesa d’altro, il bisogno di nuova narrazione. E nel caso di Poe, il seguito arriva ben sessant’anni dopo, scritto da Jules Verne, che accoglie le coordinate messe in gioco da quelle ultime righe con il suo La sfinge dei ghiacci. Già in questo episodio si rintracciano i prodromi di un sistema seriale che oggi appare una delle regole delle industrie, ma che come vedremo rischia di trovare una sua crisi.
Prima di entrare nel merito, un’altra suggestione di inizio Ottocento, questa volta musicale: se si va ad osservare la formalizzazione della struttura sinfonica, attraverso Haydn, Mozart e Beethoven, si nota come la divisione tra i movimenti sia sempre netta; se dovessimo usare un’analogia col seriale, potremmo dire che le sinfonie sono pensate con una divisione antologica al loro interno. Questo finisce con Beethoven stesso, con la sua V sinfonia: in fondo al terzo movimento non c’è stacco, nessuna pausa, solo un crescendo continuo di attesa di risoluzione che culmina con l’inizio del movimento successivo.
Da questi due esempi di un’epoca lontana, pre-mediale, in un certo senso ancora pre-seriale, troviamo tutti gli elementi di questo strumento tanto amato quanto odiato che è il cliffhanger. Una conclusione effettiva, empirica, che nel suo essere tale denuncia il suo opposto; un ossimorico suggerimento che qualcos’altro c’è, o comunque che di qualcos’altro abbiamo bisogno, che non può finire lì. Il cliffhanger mette in gioco coordinate spaziali e temporali che lo spettatore necessita di ricavare perché la sua attesa non sia tradita, perché la sua speranza di risoluzione venga esaudita.
Se tra la conclusione del Gordon Pym e il suo seguito sono trascorse almeno due generazioni, ciò normalmente non accade nella serialità contemporanea che ha fatto del cliffhanger uno strumento necessario della fidelizzazione del pubblico, della discorsività sociale tra una stagione e l’altra del prodotto, con la consapevolezza della ciclicità stagionale che il formato seriale impone.
In questo, la cosiddetta “terza Golden Age” della televisione ha fatto scuola, rovesciando il focus del prodotto seriale dalla verticalità dell’episodio all’orizzontalità della stagione, giocando sulla necessità di cesura della puntata per far sì che durante la settimana non si possa non desiderare la successiva. Esempio canonico è Twin Peaks, che al suo interno gioca in maniera esasperante col creare finali di episodio sospesi e tensivi, quasi sempre con una soluzione tranquilla all’inizio dell’episodio successivo (si pensi alla fine del terzo e all’inizio del quarto della prima stagione). Ma proprio Twin Peaks, pur nel suo utilizzo di maniera del cliffhanger tra gli episodi (e tra le prime due stagioni, con l’attentato a Cooper), si trasforma in un secondo Gordon Pym, rimandando di venticinque anni l’attesa degli eventi, soddisfatta effettivamente dopo una generazione con la terza stagione.
Ma tra Twin Peaks e il resto della televisione contemporanea, si può facilmente vedere come il cliffhanger sia diventato il motore dell’elasticità temporale del sistema seriale contemporaneo: pensiamo a Sherlock, che dilata il tempo tra un episodio e l’altro, contraendolo repentinamente negli interstizi tra le stagioni; o a Breaking Bad, capace di costruire attese sulla necessità degli eventi, senza allo stesso tempo cadere nel cliché; o ancora, e soprattutto, a Game of Thrones, in cui il destino stesso dei vari personaggi si gioca e si negozia via via attraverso un sistema di attese costruite e molto spesso tradite, creando un continuo rilancio di affezioni. Il cinema stesso ha saputo giocare con l’elastico temporale del cliffhanger, nel costruire veri e propri universi narrativi basati sulle aspettative del racconto, come il Marvel Cinematic Universe.
Ciò nonostante, il panorama sta cambiando. Il cliffhanger funziona se la necessità di una continuazione immediata si scontra con l’impossibilità di vederla realizzata; è l’attesa a dare ragion d’essere al cliffhanger, permettendo una pratica estesa tra la dimensione microscopica e macroscopica del ritmo narrativo. Le OTT, però, cambiano le regole: che senso ha creare cliffhanger efficaci in stagioni rilasciate tutte insieme, con la possibilità del binge-watching o della frammentazione personalizzata? La risposta, forse, si può riscontrare in una ritrovata protensione all’antologia per valorizzare la singola unità e, al contrario, nella tendenza a creare narrazioni più intime, dove lo spazio dell’azione è sostituito dallo spazio della personalità.
Meanwhile, da spettatori, da analisti, da critici, possiamo solo stare ad osservare, sospesi su un’idea di cliffhanger che si perde nell’inattualità della sua funzione. Le coordinate per ora sono poche, ma il panorama è aperto e in rilancio: restiamo in attesa.
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