
30 anni di Le Iene di Tarantino – L’inizio di una rivoluzione
Sono passati trent’anni da quando Le Iene (1992) di Quentin Tarantino sconvolse il Sundance Film Festival e il mondo del cinema. Oggi padre cinematografico di lustro mitologico, allora cineasta-videofilo accanito poco più che trentenne, Tarantino divide fin dal suo primo lungometraggio dietro la macchina da presa. Alcuni lo pensano un bluff, un pornografo della violenza fine a sé stessa, molti altri riconoscono il genio di un vero amante del cinema, capace di usare il suo immaginario per creare nuovi racconti.
Nelle sue prime sceneggiature – Una vita al massimo (True Romance, 1993) di Tony Scott e Assassini nati – Natural Born Killers (1994) di Oliver Stone – il genio è già evidente, i personaggi saltano fuori dalla pagina, paiono sfuggire al controllo demiurgico dell’autore, seguire i rivoli di una narrazione autonoma e per questo vera, palpabile e coinvolgente. In entrambe le esperienze, in cui per la natura collettiva del mestiere di sceneggiatore l’espressività dirompente di Tarantino è ancora imbrigliata in una narrazione lineare, a prevalere sono nella prima la nota romantico-eroica che ritroveremo in Django Unchainted (2012) e nell’altra sua furia vendicativa, prodromo di Kill Bill (2003,2004).

Da tempo però, l’autore Tarantino custodisce il desiderio di dirigere, per aver più controllo possibile sulla sua opera e giocare col linguaggio filmico. Così decide di servirsi dei 20.000 dollari ottenuti da un cameo nella sitcom Tv Cuori senza età (1985-1992) con la compianta Betty White (in cui interpretava un sosia di Elvis Presley) per produrre un film ambientato quasi esclusivamente in una sola location: Le Iene. Sottopone la sceneggiatura a Richard Gladstein e Lawrence Bender, e quest’ultimo lo mette in contatto con una conoscenza di Harvey Keitel che finirà per accettare il ruolo, rendendo possibile la rivoluzione più imponente del cinema americano indipendente degli ultimi decenni.
L’immaginario de Le Iene è quello del tipico caper movie, in cui un gruppo di individui – generalmente una banda di criminali – organizza e tenta il “colpo grosso”: tra i tanti nella storia del cinema, ci sono Giungla d’asfalto (1950) di John Huston, I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli e La stangata (1973) di George Roy Hill ma anche la trilogia degli Ocean’s di Steven Soderbergh, artisticamente e anagraficamente co-generazionale a Tarantino. Nulla di nuovo nelle premesse drammaturgiche: è però nei contenuti dialogici, nella caratterizzazione dei personaggi e nei risvolti inaspettati della vicenda che Tarantino esercita un atto dirompente.

La temporalità è sfasata, rifratta e orchestrata da un’istanza narrativa vivace e girovaga; inaspettati sprazzi di commedia irriverente si fanno strada tra litri di sangue sgorganti, molti di più di quanto un corpo umano possa contenere. Il tragico e il comico si fondono con la stessa grottesca naturalezza con cui Michael Madsen mutila l’orecchio di un agente zampettando sulle note di Stuck in The Middle With You degli Stealers Wheel.
Anche grazie a questa scena nasce l’eterno interrogarsi sulla natura della violenza dei film di Quentin Tarantino, sul piacere estetico che proviamo nel vederla, così fruibile e a portata di intrattenimento. La violenza tarantiniana non è pornografica ma prettamente cinefila, in bilico tra l’omaggio e l’atto di amore per un cinema artigianale che si rifiuta di rendere il sangue in CGI prediligendo i pacchi pieni di vernice nascosti tra i costumi. Significa fiducia nelle possibilità del cinema di eccedere dal reale, essere verosimile ma iperbolico, sensazionale, eccessivo. Il sangue ne Le Iene non è un sangue gratuito, ma piuttosto un “sangue enfatico” e quindi, paradossalmente, disinnescato nel suo dato violento.

Tim Roth disteso in una vasca di sangue che allo stremo delle forze impugna la pistola per uccidere Michael Madsen: è l’attestazione del sopravvento dell’impulsività dei personaggi sul percorso delineato dalle premesse. Il pubblico del Sundance e poi di Cannes assiste attonito e rapito: qualcosa è andato storto, la gerarchizzazione gangsteristica salta, il sospetto verso i compagni di banda dilaga, saltano anche i nomi colorati, le identità sono esposte e la forma tragica perduta, crollata come la più fragile delle dighe.
La manipolazione quasi impertinente che Tarantino attua sulle temporalità del racconto rende la conoscenza dello spettatore ora maggiore ora in ritardo su quella dei personaggi, generando effetti di suspence e sorpresa che sconfinano dalle abitudini narrative della Hollywood più istituzionale. I dialoghi de-funzionalizzano i personaggi, li spogliano del loro ruolo di gangaster, lasciandosi invadere da continui riferimenti alla cultura pop chiacchierata in un diner. Il sottotesto di Like a Virgin così come il valore morale di una mancia non sono che effetti di realtà che contribuiscono a sciogliere l’azione dal controllo delle esigenze narrative.

Proprio per questo, in Tarantino il personaggio sembra essersi scritto da sé, scavalcando l’impostazione narrativa tutta, la necessità causaeffettistica, la messa in concatenazione ritmata di eventi che facciano procedere la storia, informando lo spettatore. La cultura Pop, i beni di consumo veri o simulati, le chiacchiere stanche di John Travolta e Samuel L. Jackson sui dettagli minimi dell’esistenza, sono un condimento psicologico per i personaggi tarantiniani, un effetto di realtà, ma anche un contrappunto comico all’azione dirompente e violenta, il gesto inevitabile.
Se i vari Scorsese, Coppola e Cimino della New Hollywood appartenevano alla prima generazione di cineasti istruiti, universitari e studiosi di cinema, quella di cui Tarantino e successivamente Soderbergh (Sesso, bugie e videotape) sono protagonisti è quella dei cineasti cinefili, veri onnivori di cinema e di audiovisivo su ogni tipo di supporto, bulimici di B-movies e di ogni genere e sotto-genere trasmesso dalla Tv via cavo; la stessa generazione, ad esempio, di Douglas Gordon, che nelle sue video-installazioni meta-cinematografiche rende quel tipo di cinema iper-fruito nei salotti anni ’80 un oggetto, qualcosa di materiale e plastico (24 Hours Psycho). Qui risiede il carattere postmoderno di Tarantino, il suo citare tic espressivi e narrativi di un cinema basso o antico e di inserirli in una re-definizione artistica dei canoni cinematografici, come è cristallino in Once upon a time in … Hollywood (2019).

Le iene ottiene un successo inatteso anche a Cannes, e da Hollywood la Miramax dei fratelli Weinstein ottiene la distribuzione del film. Sulla via del ritorno dalla Croisette, in una camera d’albergo, Tim Roth nota Quentin intento a scrivere nel suo taccuino: si tratta di un dialogo tra due personaggi, ancora pistole, ancora soprannomi, ancora un diner. Quentin gli dice che è il suo prossimo film: Pulp Fiction (1994), fenomeno di culto destinato alla Palma d’oro, dove questo approccio ludico e irriverente alle forme narrative raggiungerà il suo culmine, per poi andare appianandosi nel crepuscolare e più classico Jackie Brown (1997).
Le iene, a trent’anni di distanza, conserva ancora la forza dirompente che solo i racconti vivi sanno avere, indipendentemente del medium che li veicola. Forse è per questo se, convinti della sua natura di cult, fatichiamo ancora a chiamarlo classico. La prepotenza con cui quest’opera si è insediata nel panorama cinematografico di inizio anni ’90, non ha solo portato alla luce il talento di Tarantino, ma soprattutto ha aperto le strade ad un’abitudine del tutto nuova nell’intendere le regole della narrazione.

Quello che rende i film di Quentin Tarantino così vividi e coinvolgenti è l’abitudine che il regista ha di fare il cinema con il cinema. La settima arte, in Tarantino, diventa materia plasmabile, immaginario a cui rubare gli schemi narrativi per poi stravolgerli attraverso l’impredicibile tridimensionalità dei suoi personaggi. È un atteggiamento che guarda ad un cinema auto-riflessivo. Forse, non è dunque un caso se ne Le iene l’unico personaggio a salvarsi dalla progressiva carneficina è il Mr Pink di Steve Buscemi, ovvero l’unico personaggio a mettere in dubbio, questionare e non condividere, per l’intera durata dell’opera, l’ordine e le regole precostituite della banda, proprio come Quentin fa con il cinema.
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[…] e originario in cui è ambientato negasse la possibilità di definire Il Padrino esclusivamente un gangster movie. Al contempo però la famiglia e il suo bene, ne Il Padrino, sono le motivazioni dell’azione […]
[…] parti memorabili che lo vendicarono ampiamente come uno degli attori-simbolo degli anni Novanta, da Le iene a Lezioni di piano, da Pulp Fiction a Smoke. Ma a che […]
[…] chiunque ormai associ le note di You Never Can Tell al twist di Pulp Fiction, o i completi neri a Le iene, o una tuta gialla a Kill Bill, non si può dire lo stesso di Jackie Brown, sua terza prova […]