
Il Décadrage – Sul decentramento dello sguardo nel cinema
Il Décadrage non è solo un decentramento dell’inquadratura, uno scardinamento nella gerarchia visiva, un punto di vista diverso, originale, “perverso” sulle cose. Al Décadrage, corrisponde il sentimento di ribellione ad una norma, che premia ciò che del visibile sfugge rispetto agli elementi centripeti dell’immagine, la complessità alla chiarezza, il movimento alla stasi. Letteralmente, dovrebbe intendersi come sbilanciamento della centratura, una messa in obliquo degli elementi sulla scena, un atteggiamento contrario alle abitudini rappresentative occidentali post-prospettiche.
È quello a cui si riferisce Eric Rohmer critico quando usa il termine Décadrage per indicare l’uso sistematico di figure decentrate nel cinema espressionista di Friedrich Wilhelm Murnau, o Pascal Bonitzer quando commenta la decentratura nelle sequenza di close-up precedenti al taglio dell’occhio in Un chien andalou di Luis Buñuel, un altro, storico, attacco allo sguardo, ai suoi limiti. In sostanza, si parla di uno spostamento degli elementi profilmici significativi nella periferia del quadro, usato come elemento di significazione, non casualmente individuabile al sorgere delle avanguardie.

Si tratta di una ridefinizione dello sguardo cinematografico, un’attestazione di debolezza e incompletezza del racconto che chiama chi guarda a sopperire alle sue mancanze, a rendersi spettatore attivo e cosciente. Molti autori contemporanei hanno sperimentato in chiave espressiva con il dato visivo, divincolando il focus dell’immagine dal soggetto, esiliando la figura umana al non-visibile, alla trasfigurazione o alla sua parziale occlusione. Artisti come Michael Haneke, Yorgos Lanthimos o Gaspar Noè hanno spesso fatto della eliminazione, della deformazione e della marginalità dell’umano il corrispettivo visibile di una rimozione anzitutto narrativa e tematica. L’esasperazione della distanza tra filmico e soggetto di Haneke, lo stravolgimento delle linee prospettiche dell’inquadratura di Lanthimos, le vertiginose oscillazioni scopiche di Noè: tutti segni volti a dis-inquadrare la materia narrativa delle loro opere. Ma sarebbe riduttivo relegare il termine Décadrage a una mera connotazione estetica, perché molto più vasta e complessa è la storia del suo significato.

Il termine Décadrage si pone anche e soprattutto come negazione e messa in discussione di un’unità narrativa fondamentale per il cinema: l’inquadratura, che dalla comparsa di questo concetto ha visto slabbrarsi la rigidità delle definizioni che la riguardavano. È quindi un termine che non solo si riferisce alla costruzione dell’immagine, ma anche alla dimensione ontologica di un cinema che si sviluppa oltre il suo dato visibile. «Le cadre est un cache», “l’inquadratura è un nascondiglio”, scrisse il padre dei teorici del cinema André Bazin, catturando con lucidità la natura paradossale della settima arte. Ma la citazione di Bazin individua innanzitutto il ruolo corroborante del non visibile su ciò che il cinema mostra allo spettatore, mascherando il mondo nel suo quadro.

Ne è un chiaro esempio l’opera Las Meninas (1656), in cui la famiglia reale committente compare solo nel riflesso dello specchio alle spalle dello stesso Velázquez. È uno dei primi esempi di meta-riflessività, di rappresentazione che rappresenta sé stessa. I soggetti principali sono fuori campo, eppure un dispositivo riflettente li restituisce alla scena. Non è dunque un caso se proprio questo quadro di Velázquez sarà la foce della riflessione che Bontizer attua sul concetto di Décadrage, ragionando sull’interscambiabilità di campo e fuori campo, nell’arte cinematografica. Lo specchio inoltre è uno dei più frequenti e immediati espedienti decentranti nel cinema, proprio per la possibilità di far evadere l’immagine da sé stessa, attestarne la manipolabilità, come, ad esempio, in molto cinema diaristico di Agnès Varda.

È un discorso, quello di Bontizer, che sorge intorno alla fine degli anni ’70, quando la riscoperta degli autori europei e la rivoluzione produttiva, stilistica e narrativa della New Hollywood sono al culmine. È in questo stesso periodo che si intensifica l’uso di espedienti e segni volti a porre la visione del film da parte dello spettatore, in una condizione non più puramente immersivo-passiva, bensì trans-narrativa, ovvero conscia dell’istanza dello sguardo. Sguardi in camera, specchi rivelatori, soggettive impossibili, prospettive ardite, sensibilità materica dell’immagine e del movimento di macchina sono solo alcuni di questi.

È utile allora pensare al significato che si dava al termine “décadrage” nei vecchi cinematografi francesi. Si parlava di Décadrage quando un errore in cabina di proiezione faceva sì che sullo schermo si vedesse la parte inferiore del primo fotogramma e la parte superiore di quello successivo, con tanto di banda nera a separarli. L’illusione di continuità tra i fotogrammi si interrompe, il dispositivo surclassa il racconto e allo spettatore si svela l’artificio della visione. Uno schiaffo, per gli ingenui spettatori di inizio secolo, un po’ come l’ultima inquadratura di The Great Train Robbery, troppo ravvicinata per conservare l’illusione di realtà. Proprio in quella banda nera, comparsa per errore al centro dello schermo, risiede il valore riflessivo di un cinema conscio del suo costrutto, un colpo di pistola alla coscienza spettatoriale, il disvelamento concettuale che il Décadrage vuole individuare.

Se Deleuze è tra i primi a capire la natura fortemente dialettica che sussiste tra visibile e non visibile, Bontizer è il primo a teorizzare, relazionando la settima arte alle pratiche pittoriche, l’effetto centrifugo del fuori campo sull’immagine cinematografica, l’enigmaticità che esso genera e infine l’atto mutilativo che la lama dell’inquadratura compie sull’immagine. È l’enigma della visione cinematografica, inspessito dall’intercambiabilità di campo e fuoricampo, che invece in pittura è presente solo tramite artifici come quelli adottati da Velázquez o da van Eyck, ne Il Ritratto dei Coniugi Arnolfini.

Michelangelo Antonioni, non a caso uno dei cineasti-pittori presi in rassegna da Bonitzer, sguardo di spicco della nuova ondata europea negli States, è un maestro dell’uso auto-riflessivo dei movimenti di macchina. Al montaggio interno legato alla prossemica attoriale risponde spesso un’approccio decentrante che fa soccombere la figura umana all’alienazione del paesaggio, fino alla sua rimozione totale dallo schermo. Il Décadrage si pone come significante della progressiva tendenza della settima arte a ragionare su sé stessa, a riflettere sullo specifico filmico, a cavalcarlo e talvolta a rimanerne sopraffatta. Décadrage è, in sostanza, la consapevolezza che l’illusione di realtà che sperimentiamo durante la visione di un film deriva dall’assenza di quella realtà stessa.

L’inquadratura, analizzata attraverso il prisma del pensiero di Bontizer, appare quindi come un fondale cieco, un frammento di mondo fallace, che non basta a sé stesso. Interpella l’alterità del fuori-campo, del campo cieco, quello in cui fonici e assistenti sostano in sacro silenzio, quello in cui la macchina cinema crea il suo costrutto, nascondendosi. Il Décadrage attesta in qualche modo la fallibilità del mezzo di riproduzione ottica sul mondo, la sua parzialità mistificatoria, e quindi, per similarità, il fallimento dell’occhio su ciò che nel mondo è conoscibile, la sua vulnerabilità. Non è un caso se l’attuale slancio immersivo della virtual reality arriva a espandere la sensorialità del cinema alla dimensione tattile. Evoluzione o deriva, che porta lo spettatore non solo a ragionare attivamente sul suo ruolo, ma anche ad uscirne, trasformato in uno spettatore-attore-autore.

Ariaferma di Leonardo Di Costanzo si svolge all’interno di un carcere dismesso in cui i detenuti, disposti in celle dipanate su un panottico, circondano e quindi “incarcerano” gli stessi carcerieri, a tradurre in immagine la relazione di somiglianza e reversibilità tra guardie e criminali. L’espediente del panottico, carcere “ideale” progettato per permettere ad una sola guardia di controllare più detenuti dalla stessa posizione, rimanda al concetto del “tutto visibile”, ottimo esempio per ragionare su un atteggiamento rappresentativo prettamente occidentale. Dall’invenzione della prospettiva in poi infatti, i comportamenti legati ai metodi di fissazione e rappresentazione delle immagini, passando per quelli legati alle tecniche di riproduzione meccanica del visibile, sono sempre stati guidati dalla pretesa dell’essere umano di dominare, cogliere, razionalizzare e quindi possedere il mondo con i propri occhi. Il Décadrage, così come altre teorie coeve, è tutto ciò che rovescia questa pretesa illusoria, complicando la visione con un dubbio, un interrogativo, una messa in questione del rapporto tra osservatore e oggetto osservato e consentendo allo spettatore di accedere a uno spazio fruitivo che è senza padrone, in cui può riflettere sul suo stesso sguardo, oltre che su quello dell’istanza narrante.
L’angelo della visione che aleggia nei cieli di Nope di Jordan Peele sembra essere una metafora perfetta dei procedimenti riflessivi innescati dagli elementi di décadrage. Allegoria del vedere stesso, questo demiurgo mortifero è sia oggetto del desiderio che minaccia da cui fuggire, ma soprattutto, contrariamente alle abitudini rappresentative più istituzionali, non può essere guardato. Se i protagonisti di Nope, ossessionati dal documentare, immortalare, trattenere in un’immagine chiara ed esaustiva il male, alzassero lo sguardo, sparirebbero risucchiati dal suo potere enigmatico. E forse, si tratta proprio del potere enigmatico della visione cinematografica che, nel suo svelarci il mondo, ce lo sottrae, coprendolo con le immagini.
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