
La depressione secondo Lars von Trier – Tra psichiatria e cinema
«Ho sempre sofferto di ansia che col tempo si è trasformata in depressione ed il trattamento per uscirne è fare qualcosa ogni giorno. Fare un film è un’attività che richiede programmazione, quindi usavo il film come motivo per alzarmi dal letto».
Questa dichiarazione di Lars von Trier getta luce su quello che per il regista danese ha rappresentato il processo creativo di Antichrist (2008), il primo film di quella che è conosciuta come Trilogia della Depressione, comprendente anche Melancholia (2011) e i due capitoli di Nymphomaniac (2013 e 2014). Il legame tra artista e opera ha radici ben profonde: per uscire dal senso di annullamento proprio della depressione Von Trier ha fatto affidamento alla sua creazione, incanalando all’interno di essa le immagini, le paure e gli stati mentali che lo affliggevano. L’apatia e la mancanza di energia che la malattia aveva instillato in lui sono state progressivamente respinte e superate grazie anche alla componente operativa del lavoro del regista: la programmazione, la routine del set, il lavoro di scrittura. Fare il film ha spinto, quasi costretto, von Trier all’azione in un momento in cui la malattia lo aveva privato dello slancio vitale necessario per esistere attivamente.
Analizzando i tre film della trilogia non si deve però cadere nell’errore di interpretare ciò che l’autore ci mostra come una trasposizione diretta del suo vissuto interiore. Ciò che vediamo è infatti filtrato a priori, è il paziente Lars von Trier a scegliere cosa mostrarci e come raffigurarlo.
Ecco quindi che nella disamina si devono considerare i film come il racconto di un’esperienza soggettiva e non come un’oggettiva rappresentazione della depressione e di cosa essa abbia fatto scaturire nel mondo interiore dell’autore. Per evitare considerazioni spurie si deve oscurare completamente ciò che è il personaggio Lars von Trier e focalizzarsi soltanto su ciò che ci viene mostrato nei tre frammenti della trilogia.
In ambito psichiatrico la definizione di una malattia è materia particolarmente ardua, a causa spesso della mancanza di un riscontro organico dell’alterazione che faccia da fondamento all’entità clinica, ed è affidata a manuali diagnostici periodicamente aggiornati. Quello attualmente in voga è la quinta edizione del DSM (Diagnostic and Statistical manual of Mental disorders), il quale raggruppa la depressione maggiore, che è una sorta di archetipo comprendente diverse sottovarianti, tra i disturbi dell’umore e, semplificando, la categorizza in questo modo:
La depressione maggiore è un disturbo caratterizzato da un periodo di almeno due settimane di umore depresso, quasi ogni giorno, oppure da una mancanza di piacere e interesse, in tutte, o quasi, le attività. Oltre a questi due macrocriteri sono presenti, in misura diversa da un individuo all’altro, altri sintomi come importanti variazioni del peso corporeo, insonnia o ipersonnia, privazione di energie, mancanza di autostima o eccesso di senso di colpa, e ricorrenti pensieri di morte con un’eventuale ideazione suicidaria più o meno organizzata. Questi sintomi devono causare un significativo disagio in ambito sociale e/o occupazionale e non possono essere attribuiti all’abuso di qualche sostanza o ad un’altra condizione medica.
Avendo quindi ora una definizione il più possibile rigorosa, senza la quale ogni riferimento alla depressione sarebbe stato aleatorio, è possibile andare a raffrontarla con ciò che vediamo nelle tre pellicole e capire così come, nelle sue varie manifestazioni, viene raffigurata dal regista danese.
Caso clinico 1: Antichrist
Al centro della vicenda vediamo una coppia alle prese con l’elaborazione di un evento estremamente traumatico come la perdita del figlio, conseguente ad un incidente domestico causato da un’imprudenza. A partire da ciò si innesta nel film un percorso di analisi psicologica, in cui lui (Willem Defoe) rappresenta la parte razionale mentre lei (Charlotte Gainsbourg) quella emotiva. Assistiamo ad uno scontro tra queste due fazioni, dove la ragione di lui cerca di contenere gli impulsi di lei, afflitta dai sensi di colpa e soffocata dalle ansie.
Qui la depressione si manifesta in maniera subdola tra le pieghe del pensiero di lei, alle fondamenta del racconto c’è l’evento traumatico che sembra aver slatentizzato e fatto detonare in deliri alcuni impulsi che già covavano nella mente di lei. Basti pensare, ad esempio, ai riferimenti riguardo agli studi intrapresi dalla donna riguardo alla caccia alle streghe e alle persecuzioni subite dalle donne, che possono essere visti come un substrato che darà poi fondamento alle idee deliranti sulla mancanza di fiducia nei confronti del marito, che alimentata poi dagli eventi, dall’atmosfera e dalle paure, sfocerà nella violenza come meccanismo di difesa e autoaffermazione.
Oltre a questo delirio di persecuzione, vi è poi il senso di colpa per la morte accidentale del figlio di cui lei si fa carico. Per quanto sia normale che in seguito ad un evento così drammatico un individuo si interroghi sulle sue responsabilità, a volte anche sovraccaricandole spinto dall’emotività del momento, l’eccesso e la smisuratezza di questa sensazione che vediamo nel film è correlabile ad una devianza del pensiero generatasi dalla depressione che permea la mente della protagonista.
Altro elemento cardine è il rapporto con la Natura, qui vista in ottica leopardiana come un’entità maligna – «la natura è la chiesa di Satana» – e non curante dell’uomo e, anzi, ad esso contrapposta, teatro in cui vengono messe in scena e si scontrano le inquietudini e le pulsioni e dove «il caos regna» come asserisce la volpe morente che il protagonista maschile incontra durante la sua fuga nel bosco. Questa visione dell’elemento naturale è anch’essa riconducibile alla depressione, in cui anche tutto ciò che circonda l’individuo è filtrato secondo la tipica visione pessimista e sfiduciata.
Caso clinico 2: Melancholia
Melancholia vive sull’incertezza, quella di Justine riguardo ai propri affetti e quella del mondo riguardo alla sua possibile fine per lo scontro con il pianeta Melancholia, diretto verso la Terra in una danza della morte gravitazionale.
Justine e Claire, due sorelle, incarnano due personalità che anche qui si contrappongono: governata dalla passione quella di Justine (Kirsten Dunst), regolata dalla ragione quella di Claire (Charlotte Gainsbourg). Questa opposizione è rafforzata dalla divisione strutturale della parte centrale del film, successiva al celebre prologo, in due capitoli. Il primo dedicato a Justine, il secondo a Claire.
Nel primo, incentrato sulle nozze di Justine, von Trier ci presenta il degradante ambiente famigliare in cui vivono le due sorelle, elemento condizionante la psiche delle due protagoniste. Justine vede lentamente venir meno la certezza della realtà dei propri sentimenti per il marito, arrivando a prendere coscienza della propria impotenza affettiva. La fredda Claire tenta di controbilanciare le derive della sorella provando inutilmente a ristabilire l’ordine programmato degli eventi e l’equilibrio nella mente della sorella. Ma l’inevitabile impossibilità della felicità per Justine si esplicita in un dialogo con il marito Michael: «Poteva essere tutto diverso» le sussurra lui andandosene, «Sì, poteva essere tutto diverso. Però Michael, che cosa ti aspettavi?» è la chiusura lapidaria di lei.
Si rivelano quindi in questo primo capitolo tutte le dinamiche che scateneranno la sintomatologia depressiva in Justine.
Nel secondo capitolo vediamo la piena manifestazione della malattia, in concomitanza con l’avvicinamento di Melancholia alla terra.
Justine appare debole, priva di energie a livello sia fisico che mentale: azioni banali come lavarsi, alzarsi dal letto o mangiare richiedono sforzi spropositati. Il suo mondo interiore è in decadimento, il sapore del cibo diventa lo stesso della cenere, il piacere diventa una sensazione impossibile ma, paradossalmente, la tragica ineluttabilità degli eventi naturali la rasserena, Justine nello scontro di Melancholia con la Terra trova la conferma dei suoi deliri nichilistici. Al contrario Claire ed il marito, uomo adepto alla scienza, rappresentano il fallimento e l’incapacità della ragione davanti alla Natura («La Terra è malvagia») e al caos.
L’Apocalisse, ovvero la fine del mondo, e la malattia depressiva, la morte del mondo interiore, si uniscono nell’entità del pianeta Melancholia.
Caso clinico 3: Nymphomaniac
Dopo aver indagato la sensazione di colpa e persecuzione in Antichrist ed il nichilismo e la mancanza di vitalità in Melancholia, in Nymphomaniac il regista danese mette in scena una vana ricerca del piacere e il dramma di una paradossale solitudine.
Anche qui vediamo a confronto due personalità agli antipodi: Joe (di nuovo Charlotte Gainsbourg) e Seligman (Stellan Skarsgard). Da un lato c’è il passionale racconto di Joe riguardo la genesi, lo sviluppo e la maturazione della propria sessualità e identità, dall’altro lato il riflessivo e asessuato Seligman si pone nella posizione dell’ascoltatore e cerca di razionalizzare e dare una decodificazione del vissuto di Joe.
Riconducendo il discorso al tema centrale della trilogia, l’anedonia di Joe è il sintomo depressivo più eclatante, è di forma atipica in quanto essa ritiene possibile il piacere e ne mantiene il desiderio, ma non è in grado di raggiungerlo e ciò ne amplifica la sensazione di mancanza. Questa condizione si ritrova anche in disturbi causati da dipendenze, è il caso di Joe dipendente dal sesso che è per lei mezzo di sfogo delle tensioni e di affermazione, esplorazione della propria personalità. In sottofondo a questa ricerca ossessiva rimangono per Joe la noia, il senso di vuoto e una solitudine figlia della sua incapacità di relazionarsi con l’altro se non sul piano sessuale.
Questa analisi fenomenologica, descrittiva delle manifestazioni psicopatologiche e non esplicativa del loro contenuto, permette di analizzare le forme e i confini delle devianze mostrate nelle tre pellicole. Attraverso le tre opere vediamo come la visione della realtà, la percezione di essa e le azioni dei personaggi siano corrotte dalla malattia, così come il regista tragga spunto dalla sua relazione con essa ritraendo con sensibilità e raffinatezza la condizione dei suoi personaggi, i dettagli dei loro gesti, i tremori, le esitazioni, i silenzi meditativi e le urla di disperazione. Tutte queste impressioni scolpite dal regista sulla pellicola sono state per lui un appiglio su cui far leva per provare a sfuggire alla depressione, all’annullamento di sé e della propria creatività, questo perchè il processo di realizzazione dei tre film è stato un modo per sforzarsi di autoanalizzare la propria condizione e relazionarsi con la realtà in maniera il più possibile rigorosa e routinaria, sfuggendo così al vuoto caotico della malattia.
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