
Appunti sulle realtà discorsive di “Loki” – Mito e libero arbitrio
Attenzione: l’articolo contiene spoiler | Forse mi sbaglio, ma l’idea di un istituto che controlli il flusso temporale per una “corretta” realizzazione della Storia risale ad Isaac Asimov, in La fine dell’eternità (1955). Da qui è diventato un topos. Recentemente l’abbiamo visto in The Umbrella Academy, con risultati tutt’altro che accettabili e in Love, Death & Robots, nell’episodio di Hitler.
Adesso in Loki, la nuova serie di Disney+ creata da Michael Waldron, sceneggiatore, tra le altre cose, del futuro Doctor Strange in the Multiverse of Madness in uscita nel 2022 (con cui dialogherà) e, seppur solo di alcuni episodi, di due serie profondamente fondate sull’idea del multiverso: Community e Rick & Morty (con Dan Harmon a fare da ponte). Pensiamo al meta-personaggio di Abed, cosciente di essere ripreso e di poter, forse, manipolare la realtà in quanto narrazione (senza dimenticare il finale della sesta stagione, nell’espediente del gioco da tavolo); oppure, in particolare perché tutta la serie ne è pervasa, all’episodio Never Ricking Morty, nel quale i protagonisti sono intrappolati letteralmente in un congegno narrativo.
Insomma, rientrare nella tradizione più opportunamente fantascientifica è già, di per sé, una novità. Se diamo ragione a Italo Calvino, sostenendo che la fantascienza è una forma di autocoscienza collettiva, nella contemporaneità, allora questa serie si arroga, prima di tutto, il ruolo di approfondire non spazialmente né, in fondo, temporalmente ma concettualmente il Marvel Universe. Loki, dopo aver sottratto il Tesseract (in Endgame), viene teletrasportato in un pianeta lontanissimo e intercettato dalla TVA, la Time Variance Authority, per aver provocato una variazione significativa nel flusso temporale, mettendone a rischio la stabilità. Da qui, il protagonista incontra i suoi alter ego, tra cui Sylvie, una Loki donna, e in definitiva Colui Che Rimane, uno scienziato del XXXI secolo che per porre fine a una sanguinosa guerra tra universi ha soggiogato Alioth, un mostro interdimensionale che mangia materia, e ha fondato la TVA.

Loki stratifica l’universo cinematografico della Marvel attraverso almeno cinque discorsi:
Primo. Loki come presupposto narratologico e ontologico
Un discorso da worldbuilder: la scrittura del Marvel Cinematic Universe necessita, dopo Endgame, di una giustificazione e di una svolta. Endgame ha mostrato, poco tempo dopo Spider-Man: Into the Spider-Verse (2018), che è possibile un Multiverso. Dal punto di vista della Sceneggiatura è fondamentale trovare una motivazione narrativa agli eventi di Endgame, tutt’altro che pacifici, che apra però alle nuove possibilità; e così per la Produzione è fondamentale trovare una giustificazione ontologica alla compresenza di più cicli, di più universi, che intanto si rivolgano contemporaneamente a più insiemi di spettatori. Cioè: l’evidente “crescita” della saga degli Avengers (che ha poi, piano piano, inglobato tutto) ha raggiunto un tipping point: come è possibile coinvolgere nuovi “clienti” senza perdere i precedenti? Dando un’idea di continuità e discontinuità al contempo, meglio: di ubiquità. Così è possibile che Tony Stark, ripensando il nastro di Möbius (non a caso Mobius M. Mobius è un personaggio di Loki, fondamentale), scopra il viaggio nel tempo attraverso lo spazio interatomico; che gli Avengers recuperino le gemme da questo passato alternativo; che in tutto questo la TVA non intervenga. Perché nella perversione del grande architetto, Colui Che Rimane, solo l’intrusione in un universo parallelo rende più complessa e più verosimile la vittoria contro Thanos e al contempo rende “reale” ma controllabile la possibilità del Multiverso. Mi ripeto: Tony Stark scopre (o forse Hulk-Bruce Banner) il Multiverso ma quella particolare rappresentazione è, comunque, solo un ulteriore capitolo sorvegliato dalla TVA. Mi ripeto di nuovo: la perversione di Colui Che Rimane riflette quella della Disney, che sembra voler pensare nuova Borges una nuova Tlon.
Loki proietta una coerenza ontologica nel passato narrativo del MCU e allo stesso tempo apre nuove possibilità: la prossima What if…? (agosto 2021) costruisce tutto, distrugge niente.
Secondo. La TVA come metafora della Disney: la creazione del Mito
Ecco, allora Loki può essere visto come un grosso discorso sulla Disney e sulla Marvel stesse. Come la TVA, la Marvel ha “falciato” un numero potenzialmente infinito di realtà produttive che, per un motivo o per un altro, mettevano a repentaglio la stabilità dell’Azienda: parlo, per esempio, della linea narrativa dei Defenders (Daredevil, Iron Fist, Jessica Jones, Luke Cage) ma anche di tutti quei prodotti audiovisivi che non rientrano nell’esperienza del Cinema e delle Serie (i videogiochi su tutto) e che non sono economicamente controllate dalla Disney (penso agli Spider-Man di Raimi). Attraverso la creazione narrativa della TVA è realizzato il mito fondativo del MCU (che, come ogni mito fondativo, ha origine nel sangue), il quale in qualche modo parla di una realtà al di fuori della narrazione, perché è metafora del soggetto produttivo: è un mito, in tutto e per tutto, religioso, che tenta un affondo nel metafisico (oltre il fisico della narrazione, quindi il nostro fisico) e che conferisce senso sia per gli esistenti del mondo-nel-mondo sia per gli spettatori nel mondo. Loki è un mito perché, prendendo a prestito le parole di Peppino Ortoleva (Miti a bassa intensità, Einaudi 2019), «è un racconto che fa da ponte tra il vissuto e il cosmo». Il vissuto degli esistenti e nostro e il cosmo come universo narrativo o come universo fisico. Cambiando l’ordine dei fattori il prodotto, alla fine, non cambia.

Terzo. Loki è un discorso sulla scrittura.
Se i primi due punti sono, di fatto, una “invenzione” mia sulla base di indizi interpretabili, che tutte le azioni della TVA siano state pensate all’insegna del concetto di scrittura è un fatto (quindi a prova del ponte metaforico che lega la TVA alla Sceneggiatura). I tre Timekeepers scrivono continuamente la storia, e la realizzano mentre la scrivono; fino alla manifestazione della loro “finzione” e della finzione del tutto. Ma come si dice in inglese “finzione”? Fiction. Proprio con lo stesso termine che, in forma sostantivale o aggettivale, indica il racconto. Per questo motivo, Sylvie, all’inizio del quinto episodio, dice «It’s fiction», dopo aver letto ciò che succederà nelle pagine scritte proprio come una sceneggiatura da Colui Che Rimane. Per non parlare della “firma” di “tutto ciò che è stato mai detto” da un individuo non appena arriva alla TVA. Elementi che forse rendono giustizia a un rovello decennale di Gerard Genette, sulla possibilità di una narrazione che venga fruita pressoché nelle stesse tempistiche che finzionalizza.
Quarto. Loki è un discorso sul narcisismo e sul libero arbitrio.
Ognuno scrive il proprio destino, si sente dire spesso. A parte la retorica ritretta della scrittura, bisogna dire che Loki è, in fondo, un grosso discorso sul narcisismo e sul libero arbitrio.
Vittorio Lingiardi, grande psichiatra e studioso, in un suo libro per Einaudi pone in equivalenza Destino e Diagnosi. La diagnostica è, in qualche modo, la nuova aruspicina e il nostro concetto di Destino nasce dalla relazione tra narrazione individuale e collettiva, quindi psicologica e scientifica. Lingiardi è anche autore di un libro sul Narcisismo: possiamo dire che ogni grande patologia psicologica, in fondo, viene da un ego-centrismo? Cioè dalla illusione (“speculare”) che per comprendere il mondo bisogna comprendere, fino all’ossessione, il sé? Forse; ed è questo che fa, in sostanza, il molteplice personaggio di Loki: per narcisismo fa crollare letteralmente la realtà – ognuno di noi conosce la verità: che siamo un fascio di quanti, che non esistiamo, ma per “altruismo” lo neghiamo. Solo Loki può produrre così tante varianti dal flusso per ego(t)ismo, e solo Loki – soprattutto – può realizzare il mito di Narciso come innamoramento letterale di un altro che è, però, nient’altro che sé.
Ma il narcisismo si fonda forse su un bias: che abbiamo davvero il libero arbitrio. Nel numero del 2/8 luglio di Internazionale è tradotto l’articolo di Oliver Burkeman per il Guardian, La libertà è un’illusione. In questo articolo si passano in rassegna gli ultimi pareri sulla possibilità che il libero arbitrio non esista. Gli “scettici” sono in prevalenza, non a caso, scienziati; mentre i “compatibilisti” (perché è complicato non accettare delle tesi di fondo dimostrate scientificamente) sono per lo più filosofi. Il punto è che siamo condizionati, nelle nostre scelte, dalla realtà fisiologica e biologica del nostro corpo (quindi della nostra mente, che, dati alla mano, dimostra di “scegliere” millisecondi prima che la nostra coscienza ne venga al corrente); poi dall’ambiente e quindi dalla società. Quasi leibnizianamente, emerge dall’articolo la possibilità che, se la scienza potesse verificare, cioè datizzare, tutto ciò che esiste nella realtà, potrebbe conoscere ogni scelta. Andrebbe a sovrapporsi al concetto cristiano di Dio che non predestina, semplicemente conosce tutto (Cesare non avrebbe potuto fare altro che attraversare il Rubicone). La TVA, nella finzione di Loki, conosce tutto perché ha dato forma narrativa al tutto, un po’ ciò che fa Dio dettando agli evangelisti la sua parola. L’incompatibilità tra narcisismo e accettazione, da parte di Loki, dell’assenza di libero arbitrio è il casus belli dell’intera serie. In altre parole, solo un narcisista può tirare il filo della realtà, che non tiene!, e liberare il mondo dalla predestinazione, e sé: in fondo, Loki è il percorso omerico di un dio dell’inganno destinato alla sconfitta che si ribella alla sconfitta ma che finisce per accettarla, negando invece la sua natura di dio negativo.

Tornando ad Asimov, però: la possibilità di conoscere ogni azione umana non è forse alla base del Ciclo della Fondazione? Sì, e Hari Seldon, inventore della Psicostoria, «lasciò questa vita proprio come l’aveva vissuta, perché morì con il futuro che aveva creato completamente schiuso di fronte a sé…» (Fondazione anno zero) proprio come Colui Che Rimane, trafitto dalla lama di Sylvie. Asimov che è uno dei tanti spaventati, non per scherzo, dalla burocrazia: Douglas Adams, creatore di Guida Galattica per Autostoppisti; buona parte degli scrittori modernisti; Mark Fisher (che la addita come uno dei tre grandi bracci del realismo capitalista); mio padre; Terry Gilliam, Tiziano Sclavi (nel suo Golconda, o in Inferni), io e chiunque abbia avuto la sfortuna di incontrare un ufficio zelante. Sull’autocoscienza della fantascienza: bisognerebbe capire – ma è palese – perché il futuro, se distopico, viene spesso rappresentato come un grosso mostro burocratico. La burocrazia è necessaria finché non diventa autoriferita (e la TVA cos’è?).
(per me, vorrei citare un dialogo sul libero arbitrio tra Emanuele Severino e Gerard ‘t Hooft a Milano, anno forse 2015, non ricordo esattamente dove. Alla ripetizione del concetto che per la scienza il libero arbitrio è privo di significato, Severino risponde più o meno con queste parole: «vorrei chiamare in causa il mio caro amico Tommaso [San Tommaso ndr.]: “a chi non crede nel libero arbitrio dovrebbero dargli un sacco di mazzate”»).
Quinto. Loki come prodotto audiovisivo.
Ma Loki è, prima di tutto e dopo di tutto, un prodotto audiovisivo di intrattenimento dalle grandissime pretese. Non è necessario che la serie sia un capolavoro per avanzare complesse interpretazioni. Ma allora, cos’è? Sicuramente qualcosa di nuovo. Ma, parlando terra terra, la sceneggiatura è altalenante, con episodi eccellenti (1, 2, 5) ed episodi che, sì, manifestano la propria “transitorietà” o la propria “necessità” ma non sono abbastanza; più l’appiattimento generalizzato del personaggio di Sylvie, forse però assestato su un linguaggio e un comportamento istintivi perché falciata da ragazzina (ma in realtà ingiustificabile. Non può essere così “standard” la sua capacità dialogica). Menzione speciale per la fotografia, che rinuncia alla luminosità degli Avengers per proseguire i toni cupi di Endgame pre-avventura temporale (e quel giallognolo che fa tanto Poste Italiane, doverosamente). CGI da paura, con l’apocalisse più volte rappresentata, forse come esercizio di stile, come dimostrazione di potere (sulla simbologia “anticipatoria” delle catastrofi per la grandissima catastrofe finale si potrebbe parlare all’infinito; così come sul concetto di limitazione del danno). Va da sé che la recitazione è eccellente, a parte Tom Hiddleston e Sophia Di Martino nella coppia di Loki, nondimeno per l’impiego di un comico come Owen Wilson, conosciuto in Italia come l’amico di Jackie Chan e per la pubblicità della Crodino, in un ruolo drammatico però meta, quindi che ha come necessità intrinseca una qualche qualità ironica.
Per chiudere: la serie dimostra, una volta ancora, a corollario dei punti uno e due, che i prodotti Marvel/Disney vengono scritti secondo un doppio codice (Umberto Eco), come buonissima parte dell’intrattenimento per le famiglie. Ovvero è scritto per essere interpretato in modo differente da un pubblico adulto e da uno giovane; nonché da un pubblico generalista e da uno nerd.
Piccolo timore: il cliffhanger finale dichiara apertamente che la serie è un prologo (è già in produzione la seconda stagione). Se dell’intera nuova vita del Marvel Universe o delle successive stagioni non so dirlo. So solo che la paura di affrontare un prodotto che perda tutte le sue qualità riflessive, concettuali, stratificate per un evento bellico su scala inter-cosmica è tanta.
Dimenticavo: questo pezzo non contiene ma è pieno di spoiler – ma in fondo, che spoiler esiste se tutto è già stato scritto?

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[…] l’altro gioco sull’apocalisse un po’ in ritardo rispetto a, per esempio, Loki (qui la mia recensione); il weird dell’episodio Rickdependence Spray si fonda su temi che a quanto pare sembrano […]
[…] E se nessuno di noi fosse libero, davvero? Non parliamo della libertà quotidiana, delle piccole cose, ma della libertà di fare gesti eroici? Della libertà di cambiare il mondo? La serie Disney+ che stratifica l’universo Marvel in un Multiverso (solco ridefinito da WandaVision, da What If, da Spiderman – No Way Home, sicuramente dal prossimo Doctor Strange) mette in gioco il dio dell’inganno, Loki (Tom Hiddleston), con la più grande delle verità, seppur metaforizzata: la realtà non ha senso, e così l’universo, e così le cose, così l’uomo, così i legami, così le scelte, così l’amore. Come, però, negli archetipi del genere, fra tutti La fine dell’eternità di Isaac Asimov, non ha senso che niente abbia senso. Loki dovrà liberarsi del proprio personaggio, perché raccontare e raccontarsi non è più possibile, e combattere contro il responsabile di tutto questo. Una serie che cambia le regole del gioco, che ridefinisce e rilancia uno dei progetti audiovisivi più ambiziosi della storia. Demetrio Marra. Leggi la nostra recensione qui. […]
[…] che ci guida attraverso l’anatomia del multiverso MCU dipanatosi dopo gli eventi della serie Loki. Dall’altro si tratta però anche di una serie fortemente ancorata al familiare, con vere e […]
Articolo molto interessante. Vorrei sapere l’evoluzione del parere dell’autore sul secondo punto in cui si parla delle realtà “falciate” in seguito all’uscita di Spiderman: No Way Home in cui si integrano i precedenti universi di Spiderman e si conferma un’integrazione con la serie Daredevil e quindi (spero io) anche della linea Defenders.
[…] per buona parte delle storyline degli X-Men e a prodotti contemporanei come Avengers: Endgame e Loki, il Multiverso diventa una creatura frattale, frutto delle ramificazioni di una linea temporale […]