
La quinta stagione di Rick and Morty si ripete, fin troppo
Rick and Morty, creatura di Justin Roiland e Dan Harmon per Adult Swim – distribuita in Italia da Netflix -, raggiunta la quinta stagione continua a ripetersi. Che non è un problema in sé, perché tanta serialità (nomen omen) in fondo si regge proprio sulla ripetizione. Un autore di serie di fronte all’allungamento del tempo materiale deve trovare una strategia economica per sopravvivere: è il destino, se si pensa, di ogni tipo di serialità (comprese grandi narrazioni e saghe testuali). Rick and Morty ci ha abituato a una certa formularità, a una certa ripetitività di forme e contenuti perché è una serie sostanzialmente parodica, che prende in primis il genere fantascientifico, con i suoi topoi e le sue ossessioni, portandolo all’estremo; quindi ogni genere (lo splatter, l’horror, il thriller…), ogni linguaggio (del cinema, della televisione, dei media, della letteratura), ogni tema e via discorrendo.
La natura intrinsecamente parodica di Rick and Morty – come del resto di Community (2007-2014) che condivide Harmon – non ha grandi conseguenze. Ha dei feticci, certo, ma non produce dei risultati reali. Cioè, ma non penso sia una novità, non è quel tipo di parodia che punta a uno sconvolgimento politico (la parodia porterebbe a galla, come scrive la sua maggiore studiosa Linda Hutcheon, tensioni politiche). È fine a sé stessa, autocompiaciuta, per questo liberissima (allora “The President”, parodia di Barak Obama, non scalfisce minimamente, nella sua ottusità, il vero Barak Obama che continua a scrivere bestseller indisturbato; Elon Tusk-Musk è addirittura un pacioccone; la critica al neoliberismo viene da un individualista tecnocratico). Per la sua libertà ci piace, dannatamente: la parodia è un mezzo, il contenuto è la parodia di un contenuto. Insomma, questo per dire che Rick and Morty fa tutto e il contrario di tutto e questo non ci sconvolge affatto. Ci aspettiamo che lo faccia. Ma se tutto è parodia, se non c’è assolutamente nulla in gioco, qual è il destino della serie?

Ecco, dicevo che alla quinta stagione continua a ripetersi. Non sarebbe un problema a priori, ma a quest’altezza si sente il peso del gioco fine a sé stesso, senza un’idea di lungo termine, senza un progetto. Se a un punto mi ero convinto che l’abbandono della sottotrama rivoluzionaria del Morty cattivo fosse innovativo (perché alla fine raccontare non serve a niente, a maggior ragione per prodotti così), adesso, soprattutto al season finale, mi sembra evidente che quell’abbandono fosse, piuttosto, una rinuncia, una rinuncia a una delle più grandi, potenzialmente, epiche parodiche che siano mai state architettate. Perché? In una stagione di dieci episodi quelli davvero memorabili sono quattro, il primo (per la gratuità sessuale e violenta di Mr. Nimbus) e gli ultimi tre: gli ultimi tre, non a caso, si liberano della autocompiaciuta libertà creativa per chiudere la trama principale: che fine ha fatto Persuccello? Qual era il rapporto tra Rick e lui? Rick ama davvero Morty? Quali sono gli obiettivi di Morty cattivo?
Gli altri episodi sono visti e rivisti, non solo ripetitivi e formulari: Mortyplicity è l’ennesimo gioco sugli universi paralleli e i cloni; A Rickconvenient Mort mette in gioco l’ennesimo rifacimento della cultura pop (Planetina – doppiata dalla grandissima Alison Brie – è un omaggio a Captain Planet), con l’altro gioco sull’apocalisse un po’ in ritardo rispetto a, per esempio, Loki (qui la mia recensione); il weird dell’episodio Rickdependence Spray si fonda su temi che a quanto pare sembrano ancora avanguardistici, tipo il sesso interspecie, l’incesto (ma Un amore del nostro tempo di Landolfi è di secondo Novecento…); l’episodio infernale – Amortycan Grickfitti – sembra un’appendice dantesca (anche per la parodia del contrappasso) e in ritardo di qualche secolo, sì, e per essere dolci di qualche mese rispetto a Disincanto (qui le nostre recensioni); qualche pelo di interesse genera la rilettura della storia americana in Rick and Morty’s Thanksploitation Spectacular, che però precipita verso la conclusione troppo frettolosamente; l’episodio Gotron Jerrysis Rickvangelion gioca ancora sulla cultura pop, direi maluccio, anche perché sa proprio di sentito e risentito (e a chi ha visto Community ricorderà l’episodio sul fried chicken).
Insomma, Rick and Morty ci ha abituato all’astonishment, a provare continuamente stupore, come se si fosse sempre sotto allucinogeni. Ma dopo un po’ se la formula non cambia, se la preparazione è invariata, l’effetto diminuisce e noi ci abituiamo. Se l’atteggiamento parodico, irriverente, confusionario, allucinatorio finora ha funzionato non vuol dire che funzionerà sempre. A tirare il collo alla gallina a un punto si spezza. Io, da me, un po’ di cervicale la sento, voi non so.
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[…] Rick and Morty ha deluso. Non è vero: ha deluso solo perché, dopo tante stagioni fuori dal comune, in questa (come nella terza), per qualche episodio ha abbassato il tiro. Dan Harmon (autore anche di Community) e Justin Roiland scommettono tutto sulla propria fantasia per procrastrinare e poi chiudere la sottotrama del Morty-Cattivo: alcuni episodi, come il primo della stagione – nel quale compare l’acerrimo nemico di Rick, Mr. Nimbus – sono tra i migliori mai prodotti; altri tra i peggiori – Gotron Jerrysis Rickvangelion, per esempio. Ma il season finale, protratto per tre episodi, è un miscuglio di amore e odio, di follia e razionalità. Attraverso accelerazioni e rallentamenti temporali Rick comprenderà moltissimo su di sé, sulla propria psicologia (finora rimossa), e sul proprio universo. Una serie dal ritmo e dai risultati schizofrenici, ma in fondo senza errori, deviazioni e compagnia bella come faremmo ad apprezzare gli allunghi?Leggi la nostra recensione qui. […]
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