
Il processo ai Chicago 7 – Il teatro America visto da Aaron Sorkin
Negli ultimi dieci anni Aaron Sorkin abbiamo imparato a conoscerlo tutti molto bene. Non che prima non si fosse adeguatamente affermato con successo nell’arte drammaturgica, ma il 2010 è un vero e proprio spartiacque per lui. In queste settimane, infatti, cade il decennale di The Social Network, il film di un David Fincher tanto maniacale nel curare i dettagli di una regia cucita addosso a Jesse Eisenberg/Mark Zuckerberg, quanto sono calibrati al millimetro i beats dello script di Sorkin, il punto più alto e fino ad ora ineguagliato di una carriera che in quell’occasione si coronò di un Oscar alla sceneggiatura. Poi, a stretto giro venne Moneyball (2011), che schiocca colpo su colpo come fanno le palle da baseball sulle mazze dei campioni, seguito nel 2015 dal ritratto intimo e dietro le quinte di un altro genio gamechanger del palcoscenico informatico (e non solo) mondiale, Steve Jobs.
Da qui qualcosa cambia e in Sorkin emerge il desiderio, non poi così inconsueto, di chi dalla carta vuole provare in prima persona a dar vita tridimensionale ai propri personaggi. Ma Molly’s Game, il suo primo film che lo vede anche come regista, non ha quel ritmo, quella musicalità, quell’estro tutto matematico al quale eravamo abituati, in parte ridimensionato dal nuovo e vergine impatto dietro la macchina da presa. Sorkin però, che è bene ricordare aver studiato e provato a lungo a diventare attore e quindi, forse, possessore di un genuino piglio di vanità, ci prova ancora tre anni dopo, stavolta sulle spalle del gigante Netflix. L’impresa in effetti è titanica, perché ciò che si racchiude dietro e dentro Il processo ai Chicago 7 è la bestia della Storia, quella con la S maiuscola, in uno spaccato statunitense denso, complesso, difficile da trasporre su schermo con una singola pellicola.

Non è affatto un caso che Steven Spielberg stesso (un tempo il regista designato della pellicola, qui nei panni di un produttore che sa più di mentore e guida spirituale) abbia abbandonato nelle mani di Sorkin il progetto che era nel cassetto sin dal 2006 e che non era ancora riuscito a vedere la luce. Nel post elezione di Trump del 2016 i tempi erano evidentemente maturi per cercare di elaborare in maniera definitiva i fatti degli scontri tra manifestanti e polizia avvenuti nella Chicago del ’68 in occasione della convention democratica, in un clima di forte fermento per le proteste contro la guerra in Vietnam, represse per lo più nel sangue. È chiaro come lo spunto per portare sugli schermi Il processo ai Chicago 7 trovi ancor più manforte collocandosi sulla scia delle proteste del Black Lives Matter, eco di una ben più profonda spaccatura all’interno del tessuto sociale statunitense, reso cristallino anche dalle recenti elezioni americane che evidenziano una decisa quanto drammatica polarizzazione tra democratici e repubblicani, mai così distanti e incapaci di dialogare (se non ringhiandosi addosso).
Da qui parte il lavoro che Sorkin mette su con il famigerato processo che venne fatto ai leader delle varie frange di una sinistra contornata da differenti sfumature (gli hippie saltimbanco, i neutrali e talvolta contraddittori pacifisti e democratici, le estreme Pantere Nere), contrapposta alla rigida e tutta d’un pezzo destra che fa quadrato attorno alle proprie convinzioni e utilizza una giustizia inflessibile come steccato per mantenere fuori la “minaccia”. “The world is watching” e da questo assunto Sorkin fa germogliare l’arte della messa in scena con i propri teatranti nell’aula di un tribunale che si pone a palco teatrale di un’intera nazione.
Difatti lo sforzo è affidato tutto alla forza dei personaggi, espressione ognuno delle proprie granitiche convinzioni che cedono a uno scontro dialettico forse troppo facilmente spruzzato dei colori rosso e blu a seconda di chi prende la parola. Pane per i denti del regista newyorkese, che si rivela talvolta eccessivamente bramoso nel cedere alla tentazione di una rifunzionalizzazione dell’evento storico in favore di una finzione politicizzante, declinata anche nelle vesti di amplificatore retorico di quella che è la cicatrice della fibra lacerata degli USA.

E se letto piegandosi esclusivamente in questa prospettiva, Il processo ai Chicago 7 scivola via senza intoppi, in due ore che fanno del colpo e controcolpo l’arma privilegiata del film. Questo avviene grazie soprattutto agli interpreti tutti in odore di una potenziale nomination agli Academy Awards, dallo sfrontato e loquace Abbie Hoffmann di Sacha Baron Cohen, allo scolaretto e a tratti odioso Tom Hayden perfettamente aderente all’immagine del suo (e non il contrario) Eddie Redmayne, fino alla pentola a pressione William Kunstler di un incredibile Mark Rylance che si contrappone all’altrettanto sbalorditivo giudice Julius Hoffmann di Frank Langella (e molti altri ancora ce ne sarebbero).
Alla fine, rimane fondamentale conoscere la natura di una giostra che mescola, allunga o accorcia (come il triste travaglio durato in realtà per giorni di Bobby Seale, qui nel corpo di Yahya Abdul-Mateen II) i filamenti del racconto in favore di una aderenza dell’atto storico all’atto narrativo, e non viceversa. Occorre qui che l’atto della scelta si ponga quindi il dilemma di andare ad accettare o meno il ritorno di una musicalità che sacrifica sull’altare artistico il portato di un torbido discorso sociale, che nell’ultimo lavoro di Sorkin è lasciato emergere in modo epidermico su nomi e volti che sono bandiere che non mettono mai davvero radici nel cuore più profondo dell’instabilità dalla quale emergono.
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[…] Il processo ai Chicago 7 è una giostra di immagini che investe di colpo gli occhi del pubblico. L’aula di tribunale si sveste del suo significato primario per rivelarsi nella sua anima più cruda, quella di un’America che cambia per non mutare mai. Quello creato da Aaron Sorkin è un far west adattato al mondo contemporaneo, uno sguardo su pregiudizi e diritti sottratti, su sentenze manipolate in favore di ideologie politiche e interessi personali. Ricalcando la struttura vertebrale di The Social Network, Sorkin investe di umanità la propria opera, in un saggio scritto con l’inchiostro dell’empatia senza retorica. Il collante tra il mondo di ieri e quello di oggi non poteva che essere lo sguardo di un regista attento a creare, pezzo dopo pezzo, questo specchio meraviglioso e bramoso di passione, uguaglianza, democrazia. Elisa Torsiello […]
[…] che vede il ritorno sullo schermo di Sophia Loren. Miglior sceneggiatura al solito Aaron Sorkin per Il processo ai Chicago 7, miglior attrice a Rosamund Pike per la categoria film commedia o musicale. Nessuna sorpresa […]
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