
Doom Patrol, folle serie sui supereroi, ma senza supereroi
E ora che succede? No, davvero? Un topo? Perché quello scarafaggio parla? Una strada senziente e… gender queer? E perché diavolo nessuno invecchia? Ma che razza di serie sto guardando?
Doom Patrol. Ed è la tua nuova serie preferita.
Disponibile in Italia dal 7 ottobre su Prime Video, la nuova serie targata DC, Doom Patrol – rilasciata lo scorso 15 febbraio per il pubblico statunitense sulla piattaforma di streaming DC Universe – si basa sulle avventure dell’omonimo gruppo di supereroi fumettistici creato da Bob Haney e Bruno Premiani nel 1963, e nasce come spin-off (ma totalmente indipendente) della deludente Titans, distribuita da Netflix.
Dopo tanti – troppi – flop cinematografici, la DC sembra aver finalmente cambiato rotta: lo dimostra il Joker di Todd Phillips, con il suo Leone d’Oro a Venezia, e lo dimostrano le quindici folli puntate di Doom Patrol. Una serie su un team di quattro supereroi che non sono in grado né di essere un team né di essere supereroi, in cui i superpoteri si vedono di rado, proprio perché i protagonisti non sanno come usarli (o meglio, non sanno affatto cosa farsene), e immersa in un’atmosfera drammatica, che a sua volta è sommersa da un’atmosfera delirante, irriverente, sfrenata, volgare e decisamente divertente.
L’obiettivo principale sembra proprio quello di spiazzare incessantemente chi guarda e il migliore strumento non può che essere la rottura degli stereotipi sui supereroi formatisi negli ultimi anni, specie grazie all’universo Marvel, con i suoi beniamini pettinati e colorati e la loro ironia family friendly. Completamente diverso è il target di Doom Patrol, così come il suo scopo, chiarissimo fin dal primo episodio. Il pilot mostra la genesi, non di un gruppo di eroi, ma di quattro nullità, inutili al mondo e a loro stessi per oltre vent’anni; di supereroi neanche l’ombra: quelli al centro della scena non sono che freaks, dei veri e propri disadattati, che nei loro poteri non trovano uno stimolo per combattere il male, bensì una condanna eterna. Ma non basta, perché episodio dopo episodio, la serie scava sempre più in profondità, tanto che solo alla fine possiamo dire di conoscere davvero i protagonisti: mostri travestiti da eroi prima, eroi travestiti da mostri poi.
Cliff Steele – egregiamente interpretato da un Brendan Fraser come non si era mai visto – il cervello di un idiota nel corpo indistruttibile di un robot, personaggio così esageratamente banale e patetico da risultare paradossalmente brillante; Rita Farr (April Bowlby), aiutata dal suo apparentemente inutile potere a riscoprirsi e rivalutarsi più di una volta; Larry Trainor (Matt Bomer/Matthew Zuk), impegnato, da un lato, in una lotta contro sé stesso, per la sua incapacità di accettarsi omosessuale, e dall’altro, nella difficile convivenza con l’entità che lo tiene in vita; Crazy Jane, sessantaquattro personalità, ognuna con un superpotere diverso e tutte rese perfettamente credibili da Diane Guerrero.
Ma il vero punto forte della serie è senza alcun dubbio la narrazione, distribuita in segmenti su varie linee temporali, in modo da svelare gradualmente dettagli sempre nuovi, e affidata a un narratore d’eccezione: Mr Nobody, ovvero il villain principale, che sfrutta la sua posizione per prendersi continuamente gioco dei protagonisti e degli spettatori, sfondando ripetutamente e prepotentemente – ma attenzione, non gratuitamente – la quarta parete e interferendo con i fatti.
Il prodotto, insomma, funziona. Difetti, certo, ce ne sono diversi, ma il tono faceto e l’atmosfera assurda riescono ad inglobarli e volgerli brillantemente in altrettanti pregi. Se questa è la strada che la DC ha deciso di percorrere, allora finalmente la Marvel ha di nuovo un avversario, e il pubblico, di nuovo un’alternativa.
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