
Tre cose sull’ultima stagione di Better Call Saul
Dopo sei stagioni finisce Better Call Saul di Vince Gilligan e Peter Gold, nata come spin-off di Breaking Bad (2008-2013). Distribuita in Italia da Netflix, si è presto liberata dall’originale, diventando uno dei prodotti più importanti degli ultimi anni, a tal punto da dare l’impressione di essere già un classico.
In questo articolo cerco di comprendere come sia possibile che una serie appena conclusa venga già percepita come tale. Ovviamente, dipende tutto dalla complessità del linguaggio. Per cui proverò a dire tre cose sulla forma di Better Call Saul. La prima riguarda l’uso della luce (in due scene e quindi, anche senza esempi, in tutta la serie); la seconda il senso di colpa (come meccanismo ossessivamente retrospettivo); la terza il bianco e nero.
1. La vocazione di Saul Goodman
Il taglio di luce in La vocazione di San Matteo di Michelangelo Merisi direziona lo sguardo, divide gli uomini tra chi decide di guardare Cristo e chi no. La luce è forma, qui il genio di Caravaggio, e subito, right away, etica (che anche una finestra sia illuminata dice molto dell’origine di questa luce):

Nel primo episodio di Better Call Saul Jimmy McGill (Bob Odenkirk) esce da una porta trasparente dopo aver preso a calci un cestino, si ferma sull’uscio completamente in ombra (prima era completamente illuminato) come un eroe western e quindi va verso Kim Wexler (Rhea Seehorn) che fuma. Le toglie dalla bocca la sigaretta, fa un tiro. Sono nel parcheggio della Hamlin&Hamlin&McGill e la luce mozza le loro teste. / Nell’ultimo episodio, Kim aspetta Jimmy nella stanza di un carcere dove avvengono gli incontri tra avvocato e cliente. Dopo un attimo di riconoscimento (dopo anni di dismorfia reciproca) si dirigono verso la parete, si appoggiano, Jimmy avvolge le mani di Kim con l’accendino per avvicinarle alla sigaretta, che così prende il giusto fuoco (la fiamma è l’unica cosa ad avere il proprio colore e non il bianco e nero).
Due sequenze che si parlano, ovviamente (e infatti subito, a poche ore dal rilascio, la stessa pagina ufficiale della serie proponeva il parallelismo; che si può apprezzare anche su YouTube). Ma ovviamente cosa? Cosa dicono?
Nella prima inquadratura, con il nostro sguardo che naturaliter scorre da sinistra verso destra, almeno in Occidente, il chiaroscuro “chiude” i personaggi, li schiaccia, dando un’idea (un’anticipazione) del futuro del loro rapporto; l’ultima inquadratura invece, assecondando il movimento dello sguardo, ci dà un senso di “illuminazione”, di “verità” (alla luce anche del quadro di Caravaggio), e dà un’interpretazione a ciò che è venuto precedentemente. Non anticipa nulla (la serie è letteralmente alla sua fine), però condensa l’intera parabola della coppia, riproponendone la prossemica anche se al contrario (è Kim ad accendere la sigaretta a Jimmy, alla fine).
Attraverso un’inquadratura, attraverso un semplice taglio di luce Vince Gilligan e Peter Gould mostrano come alla base della propria poetica ci sia la trasformazione (la metamorfosi) in retorica di una morale. In altre parole, usano l’inquadratura per strutturare la dimensione etica del racconto. In questo caso, il gioco è prolettico e analettico, un movimento in avanti e indietro, una sorta di suspence formale.
Better Call Saul è una serie analettica, precisamente. Un unico flashback a colori perché tutto nasce dal senso di colpa.
2. Concorso di colpa
Tornando al cestino che Jimmy McGill prende a calci. Una rabbia simile solo nel terzultimo episodio della sesta stagione, quando finalmente Jimmy chiama Kim dopo anni che non si vedono. La chiama da una cabina telefonica e appena cominciano a parlare la telecamera lascia loro della privacy. Silenzio. Conosceremo le parole di questa conversazione l’episodio dopo, dall’ufficio di Kim nell’azienda di irrigatori in cui lavora:

“Once I finally got the wig on and was wearing the costumes, they do change you.”
Dice Rhea Seehork in una recente intervista per AMC. Il nuovo look è il segno della differenza tra la nuova Kim – che ha lasciato Jimmy per le ragioni che conosciamo, ha abbandonato l’avvocatura, si è trasferita, ha cambiato lavoro e frequenta un altro uomo – e la vecchia. Nel penultimo episodio, le small talk col compagno, con le amiche, con i colleghi di lavoro, ci sono perché Gilligan e Gould vogliono rendere più visibile il cambio di vita, dall’euforia truffaldina di Saul alla normalità. La chiamata di Jimmy, però, cambia tutto. Piena di rancore, di paura, di rabbia, finisce con una provocazione: “dovresti consegnarti”, le dice lei. E lui ribatte che dovrebbe farlo anche lei, per quanto gli riguarda. Un trigger.
Nelle scene successive Kim torna ad Albuquerque per raccontare la verità sulla morte di Howard Hamlin, vittima di omicidio e non suicida. Firma una confessione per il procuratore e ne consegna una copia alla vedova. Torna in stazione, per prendere l’autobus. Abbiamo una delle sequenze più strabilianti, a mio parere, della serialità:

Potete vedere l’intera sequenza qui. Prima l’autobus spinge Kim verso il lato sinistro della scena, quasi non le dà spazio. Se volessimo dividere le inquadrature in cinque rettandoli verticali, Kim sarebbe chiusa nel primo. Poi prende più spazio: è seduta, tra il primo e il secondo rettangolo (curiosamente, i sostegni del bus in questo ci guidano), però è in secondo piano. È il momento di un’inquadratura simmetrica che, fattualmente, mette in prospettiva il personaggio: Kim è tra il secondo e il terzo rettangolo. Infine, ribaltamento di campo: Kim è tra il terzo e il quarto rettangolo, in primo piano. Su una scena di circa 2 minuti e 20 secondi, questa sequenza prende 35 secondi quasi. Un climax ascendente. Lo sguardo perso comincia a incrinarsi, si vede il petto in preda alla tachicardia e: breakdown. “Oh God”, dice, piangendo, singhiozzando, portando la mano al volto, un’altra mano (della passeggera di fianco) che come fosse la nostra (poiché il braccio è amputato dall’inquadratura) prova a consolarla. La forma, lo specifico della fotografia sembra raccontarci didascalicamente un ritorno a casa e invece fornisce allo spettatore gli indizi per comprendere prima che accada la liberazione emotiva di Kim. L’anticipazione formale (una suspence) ci fa vivere l’evento con una carica emotiva senza pari, quasi un surplus. Il polpo alla gola che rimane è l’effetto contrario: se il senso di colpa è un ritorno ossessivo al passato, al what if, l’ansia è un’anticipazione ossessiva del futuro, ed è ciò che lo spettatore prova prima dell’ultimo episodio.
3. Il presente in bianco e nero
Vivere una vita in bianco e nero. Come avrete notato, non sono sempre sicuro se parlare di Jimmy o di Saul Goodman, perché non so riconoscere i due alterego interpretati da Bob Odenkirk. Al processo conclusivo, quando Saul si dichiara colpevole e chiede al giudice di chiamarlo McGill, il gioco è troppo facile ed è una questione retorica, performativa. Infatti gli è impossibile trattenere il sorrisetto quando lo riconoscono nel pullman che li porta in carcere.
Si tratta invece di una sorta di sdoppiamento che in tempo di pace (mentale) sarebbe amministrato correttamente (Jimmy è la persona, Saul il personaggio), ma in tempo di guerra è dissociante. Saul si dimentica di svestirsi e, senza Kim (Rhea che intanto indossa la parrucca), è intrappolato. Senza Kim? Senza Chuck, anche.
Un passo indietro. Vi siete chiesti perché Gilligan e Gould abbiano scelto il bianco e nero per denotare il presente della narrazione? Solitamente, è il passato ad essere a-cromatico. Uno si può rispondere che, se la maggior parte degli eventi accadono nel passato, sarebbe stato difficile mantenere così a lungo il bianco e nero, soprattutto per lo spettatore. Vero. A voler però sovrappensare: a) il bianco e nero denota la vita di Gene (il post-Saul in fuga da tutti) e la vita della Kim post-Jimmy. Delle versioni, come dire, diminuite di loro stessi; b) in verità, il bianco e nero non denota un presente ma un presente storico. Queste due cose si intrecciano e spero di dirlo senza arzigogoli.
Non è difficile capire quale sia il significato del leitmotiv della macchina del tempo nell’ultimo episodio. Lo capiamo facilmente durante il dialogo con Walter White (qui il video). Il viaggio nel tempo è un’impossibilità teoretica e pratica, dice il chimico, e Saul sta parlando inequivocabilmente di rimorso. L’aveva fatto, già, con Mike, perduti nel deserto sopra sette milioni di dollari. Vedete la maschera? Fare più soldi, evitare di rompersi la gamba. Cazzate: il punto, però, è che la macchina da presa è al di fuori delle leggi della fisica, e può tornare indietro, andare avanti (fare analessi e prolessi) quanto vuole. Del resto, tutta la serie si gioca su questo doppio movimento del senso di colpa e dell’ansia (meglio dell’ansia manipolatoria, sono le truffe che Slippin’ Jimmy mette in atto, e mette in atto Jimmy McGill per vincere le cause, e così Saul Goodman, fino a Gene che ricostruisce così la propria identità).
La scena con Chuck è tutto: Jimmy (qui sì, davvero) vorrebbe tornare al giorno in cui, per vendicarsi, ha fatto ritirare la licenza di avvocato al fratello, provocandone, di fatto, la morte per suicidio (senza dimenticare che Chuck stesso fosse in una condizione psicotica). La riattualizzazione del trauma è ciò che fa spostare l’asticella che divide Jimmy da Saul sempre più verso Saul, fino all’omicidio di Howard a causa sua e di Kim (ma la colpa e la causa, nell’ammalato, sono la medesima cosa) che rimuove l’identità originaria, per Jimmy quanto per Kim. L’ammalato vede non in bianco e nero ma in una sorta di realtà confusa, annebbiata. Vive in un presente continuamente storicizzato, continuamente votato al passato.
A mo’ di conclusione
La macchina del tempo, dicevamo. Nella scena di dialogo con Chuck, sulla scrivania è poggiato The Time Machine di H. G. Welles. È semplicemente un correlativo oggettivo. Intanto, lega l’ultimo episodio al primo. Lo stesso libro è mostrato nella sequenza a rallenty durante la quale la casa di Saul Goodman viene svuotata.

In secondo luogo, ci dice della centralità del senso di colpa in tutto l’arco della narrazione e quindi della linea di congiunzione tra estetica ed etica. Come avrebbe fatto, questo libro-libro, al di qua del suo significato di correlativo, a sopravvivere, altrimenti, a un incendio?
Ebbene, non è vero che la forma, la composizione delle inquadrature, la ritualità di gesti e oggetti ci dànno la misura di quanta complessità esponga Better Call Saul (quindi del suo successo e della sua, già, dimensione di “classico”)? Come è possibile non rimanere sconcertati da una serie del genere? Come funziona un capolavoro? E riguardando criticamente le puntate potremmo accorgerci di tanti significati inpiù, di altri movimenti. Se penso alla morte di Nacho, per esempio, a quanto pudore conferisca un’inquadratura da lontano; o all’apatia di Gus Fring riprodotta nel grigiore formale delle inquadrature che lo accompagnano (o al suo vestiario, antitetico a quello di Saul). La superficie è quasi tutto. Il movimento in superficie. Stiamo in New Mexico, del resto, perché non piove quasi mai e possiamo sempre fare qualcosa. No?
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista
[…] Better Call Saul […]