
Sound of Metal – L’odissea del silenzio
Sound of Metal, diretto da Darius Marder e candidato a sei premi Oscar (tra cui Miglior film, Miglior sonoro e Miglior sceneggiatura originale), è un duplice viaggio: quello di Ruben, che tutto ad un tratto si trova catapultato nel purgatorio della propria inedita disabilità, e del pubblico, che si muove dentro e fuori dal corpo stesso del protagonista.
L’incipit della pellicola è alienante e definisce immediatamente gli schemi della narrazione: Ruben è alla batteria, e sta suonando con lo sguardo fisso verso la sua fidanzata Lou, l’altra componente del loro duo; tutt’uno con lo strumento, nulla può distrarlo dal brano che sta eseguendo, niente sembra esistere oltre la loro musica, al di fuori del loro ritmo. Non smette di suonare nemmeno quando, di colpo e inspiegabilmente, i suoni intorno a lui cessano di esistere.

Il montaggio sonoro ci permette di sentire e percepire il mondo con i timpani del protagonista: lo spettatore, intimamente consapevole di quel che Ruben sta vivendo, condivide con lui la stessa straniante sensazione di isolamento involontario dalla realtà. Visivamente, sono le micro-espressioni facciali di Ruben, magistralmente interpretato da Riz Ahmed, a rivelarci il suo stato d’animo: i suoi grandi occhi spaesati sono gli unici elementi che tradiscono, in pochi e sparsi momenti, la confusione e la paura della sua sconosciuta condizione.
Ha così inizio il cammino interiore di Ruben, volto alla scoperta e all’accettazione della propria disabilità. La perdita di udito lo costringe ad abbandonare il palcoscenico e a passare diverse settimane all’interno di una comunità di non udenti, lontano dalla sua compagna. Perdere Lou e la musica, le due ancore di salvezza che gli avevano permesso di salvarsi dal proprio passato e dalla tossicodipendenza, calano Ruben in un baratro ancor più buio: emergono tutte le sue debolezze e la sua vulnerabilità, solo apparentemente celate dalla corazza di tatuaggi e tinta biondo platino, ed è proprio la prossemica di Ruben, la presenza dura e al contempo fragile del suo corpo a rappresentare, da sola, gran parte del lavoro di introspezione del film.

(interpretato da Paul Raci, candidato all’Oscar come Miglior Attore non protagonista)
Per imparare il linguaggio dei segni, Ruben è costretto a confrontarsi con una sfida paradossalmente ancor più ardua, poiché radicata nel suo animo: convivere con la solitudine del silenzio e, quindi, con sé stesso. Il pubblico comprende e vive direttamente i sentimenti di emarginazione dal mondo che Ruben prova, perchè esattamente come lui anche lo spettatore viene escluso dalla comprensione della realtà circostante: il regista Marder infatti, sceglie appositamente di non sottotitolare i dialoghi che avvengono attraverso la lingua dei segni finchè Ruben non è in grado di comprenderla, seguendo e accompagnando Ruben nel suo percorso di formazione.
Ciò consente al contenuto della pellicola di arrivare direttamente al cuore dello spettatore attraverso lo stesso medium (meta)cinematografico, veicolo del disagio di Ruben e della sua incomprensione verso una nuova realtà che sarà obbligato ad accettare come propria, scoprendo infine – dentro sè stesso – un nuovo equilibrio. Sia lui che Lou, entrambi un tempo salvatori l’uno dell’altra, al completamento del viaggio di Ruben trovano individualmente la propria strada.

Sound of Metal è l’esempio di come una narrazione che procede secondo una linea retta tendenzialmente inostacolata possa comunque restituire un forte pathos drammatico. Marder riesce nell’intento sia sfruttando il potenziale emotivo del montaggio sonoro, sia incalzando l’espressività e la prossemica di Riz Ahmed tramite primi piani e mezze soggettive. Di Ruben a volte ci sentiamo parte integrale, complici compartecipi della sua sordità: sono questi i momenti in cui la telecamera si focalizza su di lui, eludendo al nostro occhio di spettatore qualsiasi agente esterno, concentrandosi solo sul suo volto. Altre volte invece, quando Marder ci concede di sentire cosa accade intorno a Ruben, veniamo totalmente estraniati dagli ingranaggi della sua vita interiore, diventando osservatori impietosi delle sue paure.
Ma il lavoro sul sonoro non si limita ad una questione di linguaggio o all’escursione dentro e fuori Ruben. Che il suono sia presente come musica suonata o rumori di sottofondo, completamente assente o frastagliato dagli impianti cocleari, esso rappresenta la lente, ogni volta diversa, con cui Ruben e noi spettatori con lui possiamo tradurre il mondo. A valorizzare l’importanza stilistica e contenutistica dei suoni, l’assenza della colonna sonora: una scelta che sottolinea l’impressione di presa diretta, quasi documentaristica, della realtà uditiva.
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[…] Un altro giro, di Thomas Vinterberg che nel suo toccante discorso ha ricordato la figlia scomparsa. Sound of Metal non ottiene nessuno dei premi principali, ma solo due tecnici, per il sonoro e il montaggio. A […]