
Nomadland – Ode alla libertà nella solitudine
Nella lingua inglese esistono due parole, estremamente differenti, che in italiano potrebbero essere tradotte entrambe con il termine “casa”: House e Home. La differenza sta però nella loro natura: se house è la casa in quanto entità concreta, come edificio o struttura, home è un concetto più aleatorio e confuso. Può corrispondere a quella che chiamiamo house, ma è possibile anche si tratti di un altro posto, di una persona, di qualsiasi cosa ci faccia sentire veramente a casa, abbracciando quindi un ambito più affettivo che tangibile. Nella canzone Home is a question mark Morrisey articolò questo pensiero chiedendosi “Home, is it just a word or is it something you carry within you?”. Questa frase in Nomadland, ultimo film di Chloé Zhao e vincitore del Leone d’oro alla 77° Mostra del Cinema di Venezia, viene rievocata attraverso i tatuaggi di una nomade che Fern (Frances McDormand) incontra sul suo percorso, ma è anche un’idea che aleggia su tutto il film. È possibile sentirsi a casa senza avere un posto concreto dove mettere le radici?

Nomadland nasce dal saggio “Nomadland – Surviving America in the Twenty-First Century” di Jessica Bruder, che cerca di inquadrare una realtà complessa dell’America post-Grande recessione: gruppi di ultracinquantenni che non possono permettersi di andare in pensione e nemmeno di avere una casa stabile. Così hanno deciso di abitare su dei piccoli furgoncini e di girare l’America alla ricerca di modesti lavori stagionali che bastano per pagare il posto macchina, la benzina e il cibo. Chloé Zhao da regista e sceneggiatrice porta sullo schermo quelle storie nascoste della nuova America usando Fern di McDormand più come esempio che come protagonista. Sembra quasi un caso che la camera attenta, delicata e quasi invisibile di Zhao stia seguendo la vita di Fern e non quella di un’altra persona. Fern è un’anomalia per i molti, sconosciuti e non, che le chiedono se ha bisogno di aiuto, di un posto dove stare, ma lei cerca di non tentennare nonostante le difficoltà di quella nuova vita. Fern è scappata da una città fantasma e dalla perdita del marito per ricrearsi. Vive una libertà e un’indipendenza rare al giorno d’oggi, che però non riescono comunque a sfuggire ai dettami di una società capitalista. La macchina da presa la segue preoccupata mentre Fern si sposta tra un fast food e un centro logistico di Amazon, il tutto mentre potrebbe rischiare ogni sera di morire di freddo nel suo van.

Frances McDormand con il suo viso amabile quanto stoico riesce a dare vita alla solitudine di Fern, al suo vivere fuori dalle norme societarie, ma anche alla sua voglia di ricominciare da se stessa. Attorno all’attrice ruotano una serie di veri nomadi, alcuni, come Linda May, intervistati anche dalla stessa Bruder all’epoca della scrittura del saggio. Se Nomadland è un film riuscito, lo si deve alla natura estremamente compatibile di Fern e di Zhao: entrambe sono mosse dalla stessa curiosità di vedere il mondo e di ascoltare le voci degli sconosciuti che incontrano lungo il percorso. I loro sguardi sono puri e privi di giudizio, ma soprattutto sono attenti, osservando anche quelle realtà di chi è stato dimenticato da tutti e tutto. Chloé Zhao segue Fern creando un ibrido tra documentario e film, perché se il personaggio è sì inventato e inserito nel contesto descritto da Bruder, il quadro che riesce a creare della vita di Fern è estremamente vivido e reale. In ogni inquadratura, quando segue la sua protagonista a lavoro oppure mentre cammina in silenzio, dimostra di essere disposta ad ascoltarla e ad imparare da lei. È uno sguardo, simile a quello dolce di Agnès Varda, di cui Zhao aveva già dato prova con i precedenti Songs My Brothers Taught Me (2015) e The Rider (2017), ma che con Nomadland trova una nuova definitiva compiutezza.

Se il film offre spunti di discussione sulla condizione economica di una fetta dimenticata della forza lavoro americana, ad emergere prepotente è una riflessione sulla nostra volatile esperienza umana e un invito a cercare una vera e propria casa (nell’accezione emozionale del termine). La vita dipinta da Nomadland ricorda una lunga strada, non sempre dritta, dove è possibile perdersi e sbandare, ma anche trovare il percorso giusto, che non deve per forza seguire le regole imposte dalla società. Nomadland è un’ode dolce e sentita alla vita, alla libertà e al godersi la strada senza per forza pensare a dove porterà, perché in fondo non conta: l’importante sono il viaggio, la crescita, l’apertura mentale e l’atto di fede che è la speranza nel domani.
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