
Povere creature! – Ode al corpo e al piacere | Venezia 80
Povere creature! è un avventuroso road nightmare su note dissonanti e stonate, un romanzo di formazione e autodeterminazione femminile. Ma soprattutto è il film più gioioso, guerrigliero, ottimista di Yorgos Lanthimos, abituato ad abbandonare i suoi protagonisti in un vortice straniato che ruba storie, identità e certezze. Qui invece, il movimento è opposto, si parte dall’umanità (e mortalità) sottratta e si approda all’identità, conquistata, tappa dopo tappa, in un’esilarante, grottesca, ficcante danza macabra.

E l’identità parte dal corpo. Anzi, tutto parte dal corpo. Disumanizzato e reso animale in The Lobster, costretto, umiliato in Dogtooth, raddoppiato in Nimic, sabotato in La Favorita, paralizzato in Il sacrificio del cervo sacro, il corpo di Bella compie il tragitto speculare di chi, nato automa e replicante, guadagna progressivamente il suo essere nel mondo.
Povere creature! è infatti un’accorata, schizoide, visionaria ode al corpo, il corpo umano, anche quando di umano non è rimasto più nulla. E al corpo femminile – finalmente sfatati i tabù della masturbazione – che, rimanendo oggetto desiderato, è soprattutto oggetto desiderante, famelico, vorace e furente nell’agognare mondo e piacere. A muovere questo anti-comig-of-age, è appunto la volontà impulsiva e fisiologica di “ingurgitare la vita con gusto”, non più istintualità triviale, ma anzi tappa di una maturazione, di una formazione.

Bella, pronipote di Pinocchio e di Frankenstein, sorella della protagonista di Titane, di Annette, forse cugina (più coraggiosa, realistica, onesta) di Barbie, parente di innumerevoli archetipi mostruosi creati ad hoc da menti sole, fantasiose e un po’ pazzoidi, è innanzitutto un corpo-assemblaggio che, impossibilitato al suicidio e alla morte – la prova definitiva della nostra corporeità -, attende di diventare un “bambino vero”.

Come tutti gli altri ruoli maschili del film, il maschio creatore God(win), non bieco aguzzino, ma padre docile, solo, possessivo, dipendente, ma soprattutto anche lui freak, è patetico e al contempo pericoloso (qui sta la differenza virtuosa da Barbie, dove gli aspetti più tossici della mascolinità sono solo patetici, barzellettieri). Bella se ne affranca, si defila dalla triangolazione (ricorrente in Lanthimos), sceglie il suo percorso, rifiuta le auto-incoronazioni a demiurghi, carcerieri, divinità dei comprimari maschili, evade dal micro-mondo a cui era destinata.

Una delle cifre linguistiche più ricorrenti in Lanthimos, l’avvicinarsi e allontanarsi dal volto del personaggio tramite lo zoom, riassume al meglio una poetica che ama innescare una dialettica tra isolamento e successiva scoperta nel mondo, un rifiuto della repressione (di movimento, o di godimento che sia) che degenera in una fuga centrifuga opposta e quasi ossessiva.
In questo, e nella fredda e goffa meccanicità di un corpo ancora sconosciuto, quest’opera ricorda Dogtooth. Ma anche nel devoto e sintonico asservimento dell’interprete principale a film e regista. Emma Stone, qui nella sua interpretazione più riuscita, generosamente muscolare, performativa, coreografica e totale, è scheggia impazzita, prototipo umano sperimentale che predica e pratica godimento, restituendo sullo schermo il piacere bambino e triviale del distruggere, dell’uccidere, lo sgomento spaesato della consapevolezza del male.

La messa in scena levigatissima, fantasiosamente glam – massiccia l’influenza degli ultimi lavori per Gucci negli abiti e nelle scenografie -, citazionista dei fasti e delle avanguardie, non corre il rischio di imbalsamare la fisicità dei contenuti in immagini rarefatte, in iperboli Burtoniane, ma anzi ne potenzia le derive distorte, espressioniste, animalesche, crudelmente naturali e basilarmente mostruose. La ricerca del piacere della protagonista finisce per irradiarsi nella forma, perché il racconto si contrae e distende come un muscolo, con ellissi, cambi di pasta visiva, profanazioni spaziali e discese agli inferi che toccano l’onirico.

Povere Creature!, sintesi e svolta del cinema di Lanthimos, potrebbe apparire iperbolico, scioccante, a volte solo sciocco. Ma è in realtà una vasta, visionaria perlustrazione del nostro essere nel mondo tramite il gesto, una inquieta e irresistibile black comedy che celebra il corpo inquieto, vissuto, goduto, un corpo che è madre e figlia di sé stesso, riscattato dal suo ruolo di sagoma, contenitore vuoto, sulla riva di un fiume. Ed è la prova di un cinema che sa immaginare senza rinunciare a raccontare il presente.
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