
La favorita – Una parabola sul potere
Aggiudicatosi il Gran Premio Speciale della Giuria alla 75ª edizione del Festival di Venezia, The Favourite è il settimo lungometraggio di Yorgos Lanthimos. L’opera – con The Lobster (2015) e The killing of a sacred deer (2017) – si inserisce nel suo cosiddetto periodo americano. Per questo film il virtuosistico regista di Atene – inizialmente punto di riferimento del nuovo cinema greco, insieme a Ektoras Lygizos, Athina Rachel Tsangari, Alesandros Avranas e Konstantinos Georgousis – abbandona la storica collaborazione con lo sceneggiatore greco Efthymis Filippou (iniziata nel 2009 con Kynodontas).
L’opera è una libera riscrittura di alcune vicende occorse alla corte d’Inghilterra durante il regno di Anna Stuart, all’inizio del XVIII secolo (a interpretare la regina nubile è l’attrice britannica Olivia Colman, che a Venezia si aggiudica la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile). Il film, girato in 35 millimetri, è quasi interamente ambientato nella fastosa Hatfield House, un’imponente reggia inglese dall’architettura giacobiana (costruita all’inizio del Seicento) che si erge a Great Park, nell’Hertfordshire.
Sullo sfondo di una logorante guerra con la Francia di Luigi XIV – il Re Sole –, Lanthimos mette in scena gli intrighi e i giochi di potere alla corte d’Inghilterra, dove le spregiudicate ladies Sarah Churchill (Rachel Weisz) e Abigail Masham (Emma Stone) si contendono il favore (“La favorita” per l’appunto) di una stanca regina nevrotica, capricciosa e volubile. Ogni personaggio ha un secondo fine da perseguire, un interesse personale che – cinicamente – rende impossibile ogni forma di umanità o di rapporto sincero.
I lavori impeccabili sulla scenografia (Fiona Crombie) e sui costumi (curati dalla celebre costumista britannica Sandy Powell) danno vita a un film perfettamente calato negli ambienti storici delle corti d’inizio Settecento, esaltati (e distorti) dal rigoroso formalismo di Lanthimos, il cui sguardo è sempre marcatamente riconoscibile, dai piani totali alla proliferazione quasi disturbante di grandangoli e fish-eye. La macchina da presa del regista greco, volutamente distante dai soggetti, aumenta la lontananza morale ed emotiva tra lo spettatore e i protagonisti. Uno sguardo freddo e respingente che nega ogni empatia.
Oltre alle kubrickiane stanze grandangolari, The Favourite sembra guardare proprio a Barry Lyndon (1975), tra i capolavori del regista statunitense. Da notare in questo senso il lavoro sulla luce naturale.
Avvalendosi di una regina viziata e isterica e di due donne arriviste e pronte a tutto, il regista greco mette in scena un’anaffettiva parabola sul potere. Un’indagine mordace, una narrazione stridente in cui – rivelatoria la sovrimpressione nell’inquadratura finale – “il gioco” non ha mai fine, e sarà sempre e soltanto il potere stesso ad avere la meglio.
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