
Barbie – Tutto il resto sono solo giocattoli
È estremamente complicato afferrare Barbie di Greta Gerwig con categorie critiche unitarie, con lo scopo di darne un resoconto che sappia cogliere le componenti estetiche, produttive e discorsive del film per almeno due motivi: da un lato, qualsiasi lettura possa proporvi qui potrà essere (legittimamente, lo ammetto) usata contro di me, dall’altro perché il film stesso usa una discreta quantità di strumenti interni per deviare ed integrare il discorso critico, rendendosi estremamente consapevole di sé ad ogni livello, dal narrativo al produttivo. Però è importante scrivere di questo film su Barbie – e non di Barbie, di quelli ce ne sono 42 -, perché il lavoro di Greta Gerwig, Margot Robbie, Ryan Gosling e tutte le altre star coinvolte ha saputo diventare un castello promozionale – o meglio, una casa di bambole – capace di riempire finalmente le sale con una partecipazione che nemmeno Avatar ha potuto sognare.

Si tenterà quindi una strada forse ruffiana, ma si spera in grado di arrivare passo passo a una visione complessiva: proviamo a partire dal centro – il film come prodotto, quello che ne resterà guardandolo in futuro – per arrivare al fenomeno sociale, tra appropriazione, risemantizzazione e, soprattutto, tanto tanto commercio. Barbie è, come la bambola di cui porta il nome, un consapevole paradosso: un involucro di plastica dai contorni semplici e stereotipici che può diventare qualsiasi cosa, simbolo di liberazione, oppressione, consapevolezza, puro marketing ed anestetizzazione del sé, e per questo come film vale in modo differente a seconda dello sguardo che vi si pone, nonché, come prodotto culturale, è in grado di farsi strada negli interstizi generazionali.

Barbie come film
Proviamo quindi a mettere tra parentesi tutto quanto – le sale piene, un anno di marketing eccezionale, il boxoffice che esplode, l’onda rosa che ha travolto praticamente tutti e tutto – e focalizziamoci su Barbie come film: di per sé il lavoro di Gerwig è efficace, con un’estetica ben riconoscibile e trovate perfettamente in linea con quello che ormai può a tutti gli effetti dirsi un genere produttivo, ovvero il film a partire da una serie di giocattoli, con tutto il suo portato di gadget, nomi, personaggi e immaginari. È interessante in questo senso sottolineare come nei titoli di testa venga esplicitato che il film è tratto da “Barbie” come marchio, a sottintendere una sorta di narrazione implicita nella linea stessa di bambole e nella sua evoluzione, più volte rimarcata ed integrata nel racconto. Per molti aspetti, Barbie si allinea con tantissimi titoli in cui la divisione tra due mondi (Immaginario e Reale, qui quasi in senso lacaniano) diventa il motore narrativo di crescita, rottura e contaminazione, da Space Jam a Roger Rabbit, fino al recentissimo Don’t Worry Darling, che ha più di un elemento in comune con il film di Gerwig.

Nel suo andamento narrativo, non senza inciampi di scrittura sempre e comunque consapevoli e finalizzati alla resa complessiva, il film procede punteggiato da momenti di sincera ilarità e dà il suo meglio nella capacità di far esplodere il portato divistico delle star coinvolte: Margot Robbie, certo, che attraverso il ruolo di Barbie porta alle estreme conseguenze la sua bellezza da bambola, con tutti i contrasti che questa ha dato nel tempo tra Chazelle, Tarantino, Scorsese ed Harley Quinn; ma forse più di lei ad illuminare il gioco divisticamente dissacrante del film di Gerwig troviamo un portentoso Ryan Gosling, che col suo Ken rimette in discussione la propria carriera attoriale riuscendo a far scontrare Drive e La La Land, con tutto ciò che vi sta in mezzo ed intorno. Il gioco nella sua elementarità funziona, diverte e intrattiene, oltre a farsi parco divertimenti cinefilo e pop, tra riferimenti, easter egg e uno stuolo di guest star evidentemente entusiaste di far parte del progetto.

Barbie come messaggio
Lo strato successivo, forse il più sensibile, è quello del messaggio, che in Barbie è programmaticamente inscritto in ogni aspetto della sua realizzazione; eppure di fronte al film si assiste alle definizioni più disparate, dall’eccessivamente femminista all’irrimediabilmente conciliatore, passando per accuse di misandria e di didascalica furbizia. Ora, posto che sentirsi offesi in un qualsiasi modo da questo film può solo significare che ci sono – e ahimè spesso ci sono – dei serissimi problemi di fondo, è indubbio che Barbie sia in grado di modulare un attento gioco contenutistico attraverso un abile lavoro sugli indici di rappresentazione. Ben più sottile di un’operazione puramente estetica o pedagogica, quella di Gerwig è la messa in scena di un impianto di rappresentazione totale, un plastico in scala in cui mostrare radicalmente il fondo del messaggio.
Se ne ha l’esempio più riuscito in quello che è il ruolo tematico del patriarcato nel film: in un mondo dove non è possibile concepire un qualsivoglia “fallocentrismo” – le bambole sono prive di genitali -, esso diventa un’ostentata recita omoerotica che si realizza in una coreografia da boy band e si scioglie nel momento in cui perde ogni possibile fondamento oggettivo (dopotutto non ha nulla a che vedere coi cavalli…). Barbie trasforma ogni nodo sensibile che decide di affrontare nella sua plastica rappresentazione, ne fa una traduzione asciugata dalle implicazioni carnali, disarmandola e, fondamentalmente, anestetizzandola per renderla maneggevole e lampante: un gioco di bambole, di nuovo, dove l’importante è l’effetto e non i passaggi, dove la rappresentazione è essa stessa il messaggio.

Barbie come appropriazione
Le sale piene, dicevamo, e tutte grondanti di ogni tonalità di rosa. Barbie è un esempio lampante di come il successo di un prodotto debba necessariamente passare per il suo potenziale di appropriazione, nonché di contaminazione continua. Barbie è diventato un discorso condiviso ben prima della sua uscita, attraverso i meme, attraverso la gara al boxoffice con Oppenheimer e attraverso tutto un apparato di “accessori discorsivi” di cui hanno fatto tesoro le generazioni più giovani, trovandovi all’interno immagini efficaci della propria libera identità, in cui gli stereotipi di genere non sono altro che giochi e recite non più solidi della plastica di queste bambole. Barbie diventa quindi un’etichetta glitterata che risuona della nostalgia di un’epoca dai colori fluo piuttosto che il richiamo a ciò che la bambola in quanto tale ha sempre cercato di rappresentare, con la sua faticosa sintesi additiva negli anni di ruoli, colori, etnie, situazioni e immaginari.

Eppure Barbie decide di rivolgersi direttamente ad una generazione che ha totalmente vissuto la bambola e che di questa ha subito le conseguenze: quella generazione (se non sbaglio definita da una “X”) che ha dimenticato di invecchiare, che si è persa in un eterno ed immutabile sogno americano di plastica molto simile a quello cantato dagli Aqua nell’ormai proverbiale Barbie Girl, che con la bambola stereotipo di perfezione impossibile ha combattuto una guerra di rincorsa, invidia, distacco e frustrazione inconciliabili, e questo sia nel maschile che nel femminile. Qui il film di Greta Gerwig gioca la sua partita più difficile, quella di fare della Barbie un possibile punto di incontro tra generazioni che ne vedono risvolti radicalmente distanti, che vi pongono sguardi programmaticamente diversi, eppure che possono entrambi legittimante appropriasene per far proprio un oggetto che è anche e soprattutto simbolo di rappresentazione potenziale.

Barbie come prodotto
Infine, ad ammantare il tutto c’è il nodo più discutibile, quello che vede Barbie come film, come marchio e come immaginario indissolubilmente ancorati ad un principio consumistico che oggi si fa mercato degli ideali e delle battaglie sociali, facendo profitto anche attraverso l’attivismo e l’inclusione. Su questo lo sguardo di Mattel che produce il film insieme alla bambola, e che da decenni è campione (con Hasbro) di narrazioni da portare sugli scaffali, è di sfacciata autoironia, comoda per mettersi a vento da qualsiasi attacco (CEO e COO entrambi uomini) ed efficace per ancorare la pellicola ad una tradizione satirica che fa della manifestazione dello scorretto l’antidoto esorcizzante dello stesso (si pensi a Will Ferrell, già così in Anchorman).

Da qui pronosticare quanto l’immagine della multinazionale statunitense possa uscirne più o meno pulita – si può parlare di “Barbiewashing“? – è estremamente difficile; certo è che il film, al momento campione di incassi, diventa una magnifica vetrina per nuovo e vecchio merchandising e per restituire valore a prodotti dimenticati – per la gioia dei venditori su eBay -, nonché per intessere un fortissimo reticolo transmediale che passa dalle playlist di Spotify arrivando fino all’interconnessione tra tutti i franchise che comprendono le star coinvolte. Nonostante tutto ciò, che comunque è condizione endemica di un mercato mediale in continua e imprevedibile espansione, Barbie di Greta Gerwig è un film da vedere e di cui parlare, cercando di tenerne vivo il discorso quanto più a lungo possibile finché non ne resterà soltanto la traccia sugli scaffali, fisici o digitali che siano, perché se un simbolo transgenerazionale è oggi in grado di riempire di rosa le sale cinematografiche in tutto il mondo, allora – citando quello che a mio avviso resta il miglior film con action figure nel mondo reale – «tutto il resto sono solo giocattoli».
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