
La Bête – Revisionismo erotico per corpi in eterna attrazione | Venezia 80
Un green screen totale e la silhouette in nero di Lea Seydoux che si staglia sul piano di lavoro cinematografico come un’intrusa, prima e unica creatura vivente che comporrà l’immagine, e tester per una vera esperienza di spaesamento estetico ed emotivo. Un provino che si fa paradigma di una condizione umana problematica problematizzandola: nessun referente reale nella stanza vuota, mentre l’immaginazione lavora per stimolare l’apparizione di più coordinate. Cosa è presente pur essendo inavvicinabile e cosa è invece materialmente assente ma terribilmente pericoloso? A scrivere La Bête sono questi due binari ontologici, vettori del nostro modo di vivere i sentimenti, di interpretare gli eventi e di elaborare i traumi. La prima sequenza de La Bête è, per il capolavoro di Bertrand Bonello sbarcato a Venezia, quello che il Club Silencio veicolava in Mullholland Drive: svelamento di un paradosso, la potentissima confessione del cinema della sua natura connotativamente finzionale. Il provino di Gabrielle è lo scenario-tipo delle nostre esperienze mentali quando si parla di rapporti amorosi, l’illusione, la progettualità, i ricordi, la paranoia, tutte forme di esistenza non tangibili eppure, come le immagini, fantasmatiche.

Il progetto narrativo e d’indagine di Bonello sembra essere per questo film particolarmente capillare. Partendo da un futuro distopico in cui un sistema di intelligenza artificiale offre un trattamento capace di liberare gli esseri umani dal vincolo delle passioni, retrocediamo in ordine libero nelle vite precedenti di Gabrielle, passaggio inevitabile per la promessa purificazione del DNA all’interno di una vasca dalle tinte cronenbergiane. Generi, stilemi, citazioni, i canoni postmoderni si stratificano lungo le vite precedenti di Gabrielle che passano dal melodramma in costume, ambientato nella Belle Époque parigina, al thriller dal sapore lynchiano in una villa di Los Angeles nel 2014, fino al 2044, dove i decenni del passato possono essere fruiti comodamente all’interno di una discoteca multisala da avventori lobotomizzati. Bonello ci offre un sistema di referenti spazio-temporali solo intuibili, passando dai ricordi di una vita precedente all’altra secondo un sistema di eco, mimesi perfetta del ritmo della memoria che stratifica ricordi secondo rapporti di somiglianza. L’unico fil rouge nelle vite di Gabrielle è Louis (George MacKay), il suo unico grande amore che compare di volta in volta come co-protagonista di un’educazione amorosa secolare. Bonello non solo conferma la sua raffinata autorialità nel modellare insieme forme e linguaggi perfettamente riconoscibili creandone di nuovi, ma ha anche il grande merito di aver lavorato con un genere considerato di serie B nel panorama della critica contemporanea, mettendovi a servizio tutti gli altri: La Bête è a tutti gli effetti un film d’amore non-romantico, una love story che parla dell’amore come esperienza pluridimensionale.

Il vero protagonista de La Bête è però il rimosso o, meglio, “l’omesso”, quella dose copiosa di sentimento inespresso che il Novecento, e Gabrielle, sembrano mettere costantemente da parte. La paura della morte, la paranoia, l’angoscia, il senso di perdita, tutto uno spettro di eccedenze emotive, allegoricamente rappresentate da Bonello nell’uccello che con violenza rompe gli equilibri scenici, nel titolo, e nella catastrofe imminente come evento limite di ogni linea narrativa. L’esondazione della Senna nella Parigi primo-novecentesca, il terremoto a Los Angeles, eventi cataclismatici cui corrispondono catastrofi su piccola scala: l’incendio nella fabbrica di bambole, da cui Gabrielle e Louis cercando di fuggire, il tentato omicidio ai danni dell’attrice da parte di un sociopatico. Ogni vita di Gabrielle iscrive una lotta culturale tra modalità espressive e forme di depauperamento: la danza del corteggiamento in costume e le bambole tutte ugualmente inespressive, la frustrazione sociale e la chirurgia estetica. L’unica costante resta l’indole alla neutralità, la paura della vulnerabilità e il soffocamento continuo di un sentimento che, come un cavo elettrico, aziona scenicamente ogni tragedia. E la parabola bonelliana procede per estremi, partendo e curvandosi su un futuro in cui quella percentuale di umanità irrisolta nell’Io può essere asportata senza lasciare tracce, in un’ottica di pan-anestetizzazione dell’umano.

La Bête è però anche un grande saggio filmico sullo stato di maturità dell’immagine. Sapiente conoscitore del materiale cinematografico, Bonello mette la materia sintetica a servizio del suo racconto, trasformando le immagini in oggetti terapeutici dal sapore post-psicoanalitico. Jump cut, split screen, pixelizzazioni, le immagini riavvolgono gli eventi, si frantumano e ricompongono, seguono la libido e il desiderio di emancipazione di Gabrielle dal suo stato di inadempienza emotiva. E poi ancora lag, glitch, popup, più il Novecento avanza e più la frammentazione dell’Io produce immagini e surrogati, uscendo dall’inquadratura e chiamando il pubblico a un grado di interazione 2.0, con i titoli di coda in formato QR code.
Accanto alla genealogia dell’amore come irriducibile bisogno di mostrarsi agli altri, Bonello indaga tutti i canali e i dispositivi espressivi: dal cinema al video-selfie, dalle videocamere di sorveglianza alle interazioni cibernetiche, rinforzando un legame, ormai spesso dimenticato, tra l’emotività e le immagini come cornici di senso. È insieme un atto estetico e politico il film di Bonello, che nella sovrapposizione tra la mente umana e il cinema, tra il nostro animo volitivo e l’intrattenimento, cerca di consolare chi teme che l’eccedenza emotiva possa mettere a repentaglio una vita pienamente performante. Ci mostra quanto quel surplus espressivo è subito immagine, e che il bisogno di dichiararsi al mondo trova una forma perfetta sullo schermo. E ancora, Bonello provoca e stuzzica l’audience ipotizzando che come l’anestetizzazione della popolazione futura, così quella che riduce le immagini a puri canali intellettuali rifiuta se stessa. «It’s alla tape recording» presa in prestito come premessa, e di rimando il volto di Gabrielle che guarda l’immagine riprodotta della sua morte, commossa. Un film che è immediatamente manifesto.
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