
Evil Does Not Exist – Della natura e del suo mistero | Venezia 80
Mai come in Evil Does Not Exist le immagini di Ryusuke Hamaguchi hanno avuto una qualità tanto lirica, un soffio tanto magico, enigmatico. Si spiega benissimo se pensiamo all’origine del progetto: su richiesta della musicista e già compositrice di Drive My Car, Eiko Ishibashi, l’autore nipponico prepara Gift, cortometraggio tra cinema e video-arte che sintetizza il rapporto simbiotico tra natura e musica. Da lì, il desiderio di integrare e ampliare quelle immagini verso un lungometraggio che tenesse appunto conto di questa focalizzazione. Sulla natura e sulla musica. Evil Does Not Exist è animato tanto dall’una quanto dall’altra, dove la musica bagna di mistero un racconto che altrove (quasi dappertutto, tra gli autori contemporanei) avrebbe conservato l’asciuttezza di una materia facilmente inclinabile verso il didascalico. La storia è quella semplicissima di Takumi, un uomo che lavora come tuttofare per il suo villaggio, Mizubiki, non lontano dalla capitale, e che con la figlia, la piccola Hana, si dedica quotidianamente a curare e custodire un rapporto autentico e sano con la natura. Insegna alla figlia a distinguere un larice da un pino (l’uno ha la corteccia rossa, dice, l’altro nera), a vivere secondo i ritmi delle stagioni. Ma è in via di definizione, da parte di un’agenzia dello showbusiness di Tokyo con grandi mire espansionistiche, il progetto di costruzione di un glamping (una versione glamour del camping, appunto) che finirà per contaminare l’acqua che scorre dalle montagne fin giù al villaggio, scompaginandone inevitabilmente la vita.

Dopo una prima parte di carattere più contemplativo, dominata dai silenzi e dalla musica, il film si riappropria allora di quella densità, della matericità della parola che aveva contraddistinto i lavori precedenti. Al centro sta una lunga scena in cui gli abitanti del villaggio e due responsabili del progetto si confrontano sui cambiamenti che si apprestano a vivere. I cittadini mettono in luce i rischi, gli svantaggi, parlano con grande acume e coscienza di causa. La sensazione è (ancora una volta con Hamaguchi) quella di aver a che fare con un momento di grandissimo cinema, dalla dialettica levigata, depurato dagli eccessi di un confronto che dovrebbe essere impari e astioso, sopra le righe, gridato, e si risolve al contrario in campi e controcampi di impagabile e impeccabile semplicità. Con le parole in Hamaguchi i personaggi autenticano sé stessi e la realtà delle immagini, specie quando danno libero sfogo al dolore. In questo senso, Evil Does Not Exist percorre una via per lunghi tratti simile, ma finisce per smarcarsi proprio quando la sua leggibilità prende a farsi riconoscibile. Come il corso dell’acqua che sta per essere interdetto dalla costruzione di una falda settica, sporcato, scendendo verso il basso e contaminando tutto ciò che tocca al suo passaggio, a un certo punto, anche questo controllo geometrico di forma e scrittura viene ricondotto e fagocitato del tutto dalla componente misterica delle immagini. La sinistra prospettiva dei rami sopra la testa, che scorrono mentre la musica viaggia lentamente di suoni aspri e acuti, il campo lungo del lago ghiacciato, dei boschi innevati, gli occhi di Hana fissi sulla vista sacra di un cervo.

Dentro la liquidità di queste immagini, e in particolare della loro associazione con l’acqua, sembra di ritrovare il sentimento di oscura trascendenza di cui Tarkovskij era artefice e custode (nella preghiera elegiaca de Lo specchio, soprattutto) e Tsai Ming-liang sommo replicatore e artigiano. Il russo ne articolava e assecondava la fluidità del movimento, il continuo cambio di forma, vedendo l’acqua come un elemento estremamente cinematografico. E lo stesso il taiwanese, riallacciandola però sempre a un discorso sul corpo, che se ne libera (orinando, piangendo) e ne riempie continuamente, facendosi più che mai paradigma del fluire della vita e della sua lenta protensione verso la morte. Hamaguchi recupera dell’acqua la medesima dote sorgiva. «Scorre da monte a valle», vien detto più volte lungo il film dagli abitanti del villaggio che dall’acqua dipendono completamente. E dove i due autori precedenti le concedevano di respirare nel silenzio, in Evil Does Not Exist il mistero e l’elegia dell’acqua (e per estensione della natura tutta, coi suoi cicli e il suo mondo di imperturbabilità sacra) emergono appunto dalla voce arcana della melodia di Eiko Ishibashi. Hamaguchi si è ancora una volta riposizionato rispetto al mondo e alle immagini, ha modificato il suo atto del guardare (come solo i più grandi riescono a fare), svuotandosi delle parole per riuscire a vedere meglio, e approdare a quello che Korzybski definisce un «mondo impronunciabile». Le cose da non dire ma da sentire e percepire, con la vista e l’udito e il fenomeno di trascendenza che si svela in questo contatto. Da qui, la piega finale, scopertamente fuori misura nella sua illeggibilità, tra il sogno e la veglia, ipnagogica, irreale o reale, dolorosa, notturna, scollata da tutto, di sconcertata meraviglia.
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