
Killers of the Flower Moon – Dentro la lostness del cinema di Scorsese | Cannes 76
Ci troviamo durante gli anni 20 in Oklahoma, dove la comunità dei nativi americani Osage si è arricchita grazie alla scoperta di numerosi giacimenti petroliferi. Tra grandi dimore, chauffeur, domestici, abiti e gioielli di lusso, la loro ricchezza fa gola ai visi pallidi, alla comunità bianca che da tempo tenta di entrare nelle grazie degli Osage, vivere accanto a loro, prendersi cura delle loro finanze, financo sposare le loro figlie. Nella cittadina di Fairfax, in particolare, un Robert De Niro nei panni del grande proprietario terriero e filantropo William “the King” Hale trama di appropriarsi dell’enorme eredità degli Osage attraverso oscure operazioni di sabotaggio. Diversi tra gli Osage più o meno in vista vengono fatti uccidere in quello che diventerà noto come il “Regno del Terrore” e che sarà oggetto della prima grande indagine della neonata FBI.
Partiamo da qui, dal quadro di insieme di uno scandalo di portata storica che Martin Scorsese recupera dal saggio del giornalista americano David Grann, Gli assassini della Terra Rossa (Corbaccio, 2017), per farne il centro d’indagine del suo ultimo film, Killers of the Flower Moon (presentato fuori concorso a Cannes). Da più parti si è detto, a ragione, che Scorsese scavi nuovamente nel “peccato originale” dell’America, ne esplori una zona d’ombra che è fatta di un male tanto grande quanto nebuloso. Il libro di Grann aveva già aperto un solco oltre la superficie, mettendo in luce una cospirazione assai ramificata ai danni della comunità indiana Osage che consisteva a tutti gli effetti in un’epurazione e sostituzione. E già in Silence (2016) Scorsese si era mosso in questa direzione, calibrando le proprie immagini su una attenta riflessione legata alle persecuzioni cristiane avvenute in Giappone nel XVII secolo.

A quattro anni dall’ultima fatica di The Irishman (2019), il regista statunitense torna ad adoperare la misura titanica di un film che scavalca le tre ore per suturare tra loro tante micro-narrazioni che hanno del western lo scenario, lo sfondo, e del gangster movie la natura: azioni di prevaricazione, estorsioni, congiure nei boschi al chiaro di luna, ritorsioni continue dettate da una fedeltà solo al dio denaro. La natura dell’uomo è sempre stata vittima di una dipendenza dal potere; ne ripete ciclicamente le logiche e le riadatta al contesto del proprio tempo. Neppure la spiritualità e la sacralità della religione sono in grado di porre rimedio a una disposizione tanto istintuale, un vagito gutturale e selvaggio, come accade nella grandiosa sequenza di apertura. Durante il rituale di sepoltura di una pipa sacra, un rumore sinistro e un tremore proveniente dalle profondità della terra destano gli anziani della comunità indiana riunita in preghiera, e un getto esplosivo di petrolio prorompe dal sottosuolo e ricade in una pioggia nera sui corpi festanti e danzanti della comunità.

Se il peccato originale è un fatto di prevaricazione ossessiva che Scorsese conosce e ha diretto estesamente nella sua lunga filmografia precedente, il punto essenziale della compiutezza di Killers of the Flower Moon, come appunto accaduto in passato, è un altro e ne è strettamente dipendente. La pioggia nera, la danza, la musica ipnotica aprono a una narrazione rizomatica e incontrollata, in cui il banco salta continuamente e gli esiti si fanno sempre più disastrosi. Non che queste micro-tessere siano caotiche nella loro disposizione. Anzi, avvalendosi di un team integralmente scorsesiano, in cui il fondamentale montaggio di Thelma Schoonmaker fa il paio con il posizionamento certosino della fotografia di Rodrigo Prieto e l’impeccabilità della descrizione musicale di Robbie Robertson, il lungo movimento di capitalizzazione delle aspirazioni dei bianchi ai danni degli Osage è sempre perfettamente leggibile anche nella sua strutturale (e gigantesca) episodicità. Verrebbe naturale chiedersi dunque quale sia l’esito, dov’è che conduca questo continuo intricarsi e districarsi. Ma ecco che il punto essenziale – cui accennavano poc’anzi – si sposta. Meglio, viene fuori rispetto al senso di questo movimento sinuoso.

La verità – che è poi la ragione fondante per la quale il cinema di Scorsese da sempre prospera – abita nella prospettiva di una rivelazione. “Cinema is about revelation”, scriveva il regista sul Times nel 2019, una rilevazione di carattere estetico, emotivo, spirituale. E a renderla possibile è la sostanziale fallibilità dei personaggi, la promiscuità tra i loro desideri intestini, financo divergenti e per questo dagli esiti pure più affascinanti. Sin dal principio, in Mean Streets (1973) con Harvey Keitel né gangster né prete, apostata della religione e della malavita, tra polarità, forze centripete e centrifughe, tutto era inscritto in un’ottica rivelativa. Tra meccanicismo e predestinazione, alla fine o nel mezzo, “suddenly [they] come face to face with themselves”. E Leonardo DiCaprio ne diventa ora il cuore e la sintesi, nel ruolo di Ernest Burkhart, nipote di William Hale.

Dello zio, Ernest non ha né l’oscurità d’animo celata da bonomia, né la dote clinica e strategica di render suo tutto ciò che tocca. L’uomo è di ritorno a Fairfax dopo aver servito come soldato per la Prima Guerra Mondiale e cerca di entrare tra le grazie di William, che lo convince ad avvicinare e a sposare una ricca donna Osage, Mollie Kyle (Lily Gladstone), per estendere lentamente la propria ombra sulla sua eredità. Ernest si innamora davvero di Mollie e altrettanto sinceramente vorrebbe essere padrone delle sue ricchezze. Partecipa allora ineluttabilmente – ecco, scorsesianamente – alla lunga discesa negli inferi, vittima della propria natura venale e consapevolmente avvelena il proprio amore, l’idillio in un primo momento costruito di immagini di una bellezza e purezza lirica, spirituale (e in questo, a proposito della grandezza dei personaggi scorsesiani, la performance di Lily Gladstone è fondamentale, eccezionale). Ernest parte dall’onestà racchiusa nel proprio nome e si consuma inseguendo un sogno impossibile e disonesto quanto la bontà dello zio William, assumendo una prossemica nervosa, a tratti isterica, che si esibisce in guizzi di turpe comicità e moralità posticcia.

Nel conflitto irriducibile dentro il cuore di Ernest, letterariamente classico e per questo eternamente valido, si forma e tenta di aprirsi quel senso di rivelazione. Per quanto tutto sembri convergere verso un esito nero, agglutinante, le storie e i personaggi e i luoghi, ogni rottura e ricomposizione, ramificano ed espandono questo profondo senso di dispersione del personaggio, dunque la sua esposizione emotiva nelle immagini. Scorsese aveva individuato il punto nodale della grandezza di Intrigo internazionale (1959) non nel profondo lavorio scenografico, nelle continue complicazioni narrative, quanto nella lostness di Cary Grant, turbato, smarrito, inquieto anche e soprattutto a causa di un amore apparentemente impossibile. Non solo Hitchcock. “Where the fuck am I?” si chiede Lady Diana/Kristen Stewart in apertura di Spencer (2022, Pablo Larrain), incapace di orientarsi lungo un sentiero in aperta campagna. E ancora se lo domanda – battuta che apre la serie e formulata con le medesime parole – il personaggio istrionico e cataclismatico di Logan Roy in Succession (2018-2023, Jesse Armstrong), che confuso dalla malattia e dalla vecchiaia nel buio del proprio appartamento finisce per pisciare sul pavimento del corridoio.
Nelle immagini di Killers of the Flower Moon il senso di lostness è compiuto, tragico, rivelatorio, fino a essere indirettamente pronunciato con un tono di sincero disarmo dallo stesso Scorsese in chiusura, su un palcoscenico e al di fuori del proprio racconto. Vestito di un’aura che sa di testamentario, padrone dunque di una formula adesso ancor più essenziale, decisiva, potente.
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