
Doctor Strange in the Multiverse of Madness | Straordinaria follia
Non è semplice trovare una chiave di lettura per Doctor Strange in the Multiverse of Madness che renda questa recensione soddisfacente senza far balenare anche il più piccolo dettaglio del racconto – sorprendente – che ne sottende la durata; non è facile perché Sam Raimi ha deciso di riempire ogni signola sequenza del suo film di momenti emotivamente rilevanti, in grado di riplasmare lo schermo cinematografico in un dispositivo performativo, sull’onda di Spider-Man: No Way Home, riuscendo a superare quest’ultimo in efficacia e solidità visiva, narrativa e meta-discorsiva. Non è facile, ma è necessario provarci, perché Doctor Strange in the Multiverse of Madness è il nodo centrale di una trasformazione radicale del progetto del Marvel Cinematic Universe, coronamento di una “Fase 4” potenzialmente eterna, in un crescendo stratificato, polifonico e profondamente filmico nel suo affermarsi.

Innanzitutto Sam Raimi. Il visionario regista in grado di modellare lo sguardo dello spettatore tra inquietudine, carnalità, materiale filmico e immaginario perturbante che, oltre a un curriculum eccezionale nell’horror tra il più sporco e spudorato, ha avuto il merito di aver inaugurato con la sua trilogia dedicata a Spider-Man un’idea ormai imprescindibile di come funzioni il film supereroico, torna alla Marvel dopo 15 anni (20 dal primo Spider-Man) per segnare un punto, per plasmare il nodo di un nuovo livello del possibile immaginario fumettistico al cinema. Raimi ha qui avuto completa libertà nel prendere in mano i fili del Marvel Cinematic Universe e intesservi un arazzo di carnalità profilmica con cui porre nuovamente le regole del gioco transmediale che lo muove attraverso i dispositivi in cui abita.

Queste regole partono da un doppio binario, interno ed esterno alla narrazione: da una parte il Multiverso, ormai sdoganato e usato da Raimi come fulcro del racconto in un modo molto simile (seppur speculare) a come viene rappresentato in Spider-Man: Into the Spider-Verse; il Multiverso nel film è infatti la dimensione topologica dell’azione, una sorta di stratificazione dei passaggi narrativi che si concretizza fin dalla primissima sequenza, con regole chiare dall’inizio perché lo spettatore non rischi di restare disorientato. Più rischioso è invece il secondo binario, strettamente legato al primo, che affianca al Multiverso rappresentato la multimedialità necessaria per godere appieno del racconto: non basta più aver visto tutti i film precedenti per perdersi nel visionario viaggio orchestrato da Raimi, ma la competenza dello spettatore deve essere più globale del solito, avendo ben presenti le serie Marvel che hanno punteggiato le uscite di Disney+. WandaVision, Loki e What if…? (principalmente, ma vanno considerate tutte) non sono più spin-off della narrazione cinematografica, bensì componenti cruciali del racconto principale senza i quali la vicenda risulta quantomeno impoverita.

Eppure Doctor Strange in the Multiverse of Madness riesce a non cadere nella trappola della tappa necessaria, dell’ennesimo episodio di una lunga saga. L’estrema consapevolezza di genere che traspare dalla messa in scena, filtrata attraverso disturbanti atmosfere dell’horror più squisito, fa di questo film un prodotto unico nell’ecosistema Marvel (e non solo), vagamente anticipato in autorialità dai due Guardiani della Galassia e solo lontanamente in consapevolezza da quel gioiellino che resta Captain America: Winter Soldier; in Doctor Strange in the Multiverse of Madness l’immaginario del fumetto prende vita con tutte le implicazioni più estreme che questo porta con sé, senza dimenticare il fondamentale pilastro pulp che le storie su carta necessariamente richiamano: questo film non ha paura di usare il linguaggio del B-Movie, non si ferma di fronte alla sfrontatezza di mettere in campo personaggi più grandi di quanto esso stesso possa contenere e non si piega all’apparente necessità del fantomatico “stile insignificante” di cui il franchise è da troppo tempo accusato.

Nulla di tutto ciò sarebbe possibile se Raimi non avesse tra le mani una portata attoriale come non se ne era mai vista in un film Marvel: Benedict Cumberbatch ed Elizabeth Olsen tengono in piedi una danza conflittuale che è un crescendo di possibilità dell’immaginario, filtrando attraverso le loro performance la surreale materia lovecraftiana di cui è intriso il tessuto della rappresentazione. Il loro scontro muove su piani che si intrecciano tra il fisico e il concettuale, sfruttando letteralmente qualsiasi possibile elemento del materiale audiovisivo per piegarlo a strumento del conflitto.

E se il film porta nel titolo il nome del Signore delle Arti Mistiche, lo spazio dedicato a Wanda acquista prepotentemente il peso di ruolo principale, rendendo il racconto di Scarlet il cuore shakespearianamente tragico dell’intera Fase 4 del MCU. In Wanda, cui ha donato appieno anima e corpo, Elizabeth Olsen ha saputo consolidare una figura divistica con un fandom riconoscibile, attivissimo e devoto, in cui lei si riconosce con orgoglio e gratitudine: andate a vedere come viene definita dai fan su Twitter e come lei stessa ha reagito quando lo ha saputo e otterrete il riassunto di buona parte del personaggio.
Si diceva all’inizio che Doctor Strange in the Multiverse of Madness è un film profondamente performativo, un po’ perché non c’è inquadratura che non richieda la partecipazione attiva dello spettatore per essere ricostruita, decifrata, raccordata e messa in tensione e un po’ perché ogni ingresso nel profilmico è inevitabilmente accompagnato da reazioni del pubblico che superano quelle stimolate dai i film precedenti, rendendo la visione un vero e proprio evento sociale, da condividere, discutere, commentare e rivivere. il coinvolgimento si fa multidimensionale e ci si sente in dialogo con il film stesso, come di fronte agli attori (ai personaggi?) in carne ed ossa. I Marvel Studios si sono dimostrati fortemente attenti al sentiment del loro nutrito fandom e hanno saputo qui esasperarne l’incisività, ricalcando appieno immaginari che fino a qualche tempo fa erano solo fantasie largamente condivise.

Doctor Strange in the Multiverse of Madness inaugura quindi un nuovo livello di relazione tra l’Universo Marvel e il suo pubblico: a 10 anni dall’uscita del primo Avengers il gioco si è complicato e lo spettatore non può più permettersi di perdere pezzi, il contesto transmediale è diventato sistematico per una fruizione non solamente completa, ma anche solo lineare del racconto complessivo e i riferimenti ai fumetti non sono più semplici strizzate d’occhio alla pur ridotta comunità dei lettori: in questo film non c’è un outfit che non sia tratto da una storyline e certi personaggi non ci si scomoda nemmeno a nominarli perché chi sa li riconosce e si incaricherà di evangelizzare il proprio vicino di posto in sala. Il pubblico è cresciuto, i supereroi pure e la Marvel si è qui dimostrata pronta di raccontare storie complesse, con una messa in scena disturbante e a tratti spietata, sciogliendo il tabù della libertà artistica nei confronti degli autori coinvolti.

In tutto questo Kevin Feige ha dimostrato, attraverso il film, che i Marvel Studios sono finalmente disposti a sfruttare al 100% ogni singolo elemento di proprietà intellettuale in loro possesso, passato, presente e futuro, senza riserve o indecisioni, con il coraggio e la competenza di estrarre dalla massa di potenziale narrativo latente tutto ciò che può servire a restituire tridimensionalità a un prodotto, anche costruendo aspettative programmaticamente da tradire attraverso la promozione. Siamo solo all’inizio di una versione più sfrontata e sfrenata del Marvel Cinematic Universe: guardando indietro a Doctor Strange in the Multiverse of Madness tutto il resto, per quanto maestoso, sembra un gioco. Qui si è fatto del cinema. E dell’epica.
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