
Vent’anni di “Spider-Man” – Un film sui mutamenti e la corporalità
New York, primi anni 2000. In un set cinematografico, un noto regista di film horror, Sam, affiancato dal produttore esecutivo Avi, sta girando delle scene per il suo prossimo film in uscita, Spider-Man. L’attore protagonista, tale Tobey, si lamenta del costume e in particolare della maschera che non gli permette di vedere chiaramente cosa ha intorno. Sembra una storia pedestremente reale e invece è di fantasia. La fantasia in questione è quella di Brian Micheal Bendis affiancato dalle matite di Mark Bagley, i quali nel 2004 hanno pensato di omaggiare polemicamente la produzione del primo film di Spidey su Ultimate Spider-Man #54 (in Italia Ultimate Spider-Man #28). La storia infatti continua con la comparsa del “vero” (Ultimate) Spider-Man sul set che urla alla produzione tutto il suo disprezzo per il film che stanno girando. Ma Avi è un produttore furbo e “suggerisce” a Sam di «continuare a girare» riprendendo il vero Spider-Man in azione. Sam è un po’ imbambolato ma anche eccitato. Avi d’altro canto è raffigurato come un rapace che fissa la sua preda. Nel rileggere la saga di Hollywood di Ultimate Spider-Man, oltre a leggere una delle migliori e più sottovalutate storie del Dr. Octopus, sembra di scorgere Lacan il quale affermava che «la verità non si riesce a dirla tutta». Spider-Man, che oggi compie i suoi primi vent’anni, è un film che ha poco a che fare con la verità dicibile ed è per questo che è ancora uno dei cinecomic più autentici e riusciti. Un film sui mutamenti e la corporalità.

Se pensate che fosse facile avere dieci anni nel 2002, avreste ragione. Vero, l’anno prima avevamo assistito in diretta al crollo delle Twin Towers, un evento che ha avuto ripercussioni anche sul film di Raimi; ma nel 2002 si era nel 2000 solo in parte. L’aria infatti continuava a puzzare di ‘900 e la televisione per ragazzi si contendeva ancora i canali principali con quella adulta, così in certe fasce orarie si potevano vedere serie animate di indubbia qualità ma sopratutto gli spot dei giocattoli che martellavano festosamente tra un episodio e l’altro, di fatto creando un’atmosfera di attesa e desiderio per “il film”. Avere dieci anni nel 2002 era un sogno a mani aperte, mani che agognavano di stringere il “pupazzo” (action figure era un termine troppo 2000 per un’Italia ancora novecentesca) dell’Uomo Ragno (“Spider-Man” era un termine troppo anglosassone per un’Italia che ancora ricordava “Nembo Kid”). Ai corpi stilizzati e sensualmente taglienti di Bruce Timm, disegnatore del Batman animato degli anni ‘90 e i cui disegni prendevano forma anch’essi nelle action figure ufficiali della serie animata, la Marvel – e in particolare la Sony ma all’epoca i ragazzini non potevano saperlo – con la Toy Biz, sembravano rispondere con dei corpi scultorei incredibilmente realistici. Erano prodotti che ti facevano desiderare di “avere quel corpo”, se non altro in mano per chi non riusciva ad averlo su tutto il resto. Solo in questo, il film di Sam Raimi aveva già vinto.

Quel corpo o idea di corpo, quindi la corporalità, è l’idea centrale di un film che è certamente invecchiato male in molti aspetti. La Mary Jane di Kirsten Dunst è senza dubbio una donna d’altri tempi, ancorata a un’immaginario che la vuole sempre e costantemente oggetto del desiderio maschile, un desiderio prima di tutto romantico e affettuoso scandito da occhi sorridenti e guance tondeggianti e solo dopo profondamente erotico. Un erotismo ereditato da quella che era l’idea originale per il film di Spider-Man e che aveva come regista James Cameron e Leonardo di Caprio nel ruolo del protagonista. Nella sua radicale rivisitazione del personaggio, Cameron aveva in serbo una scena esplicita di erotismo tra il protagonista e Mary Jane, mentre Electro sarebbe stato il villain principale, un uomo d’affari senza scrupoli, assieme all’Uomo Sabbia. Questa versione del film non sopravvisse alle estenuanti fatiche finanziare e legali della Marvel degli anni ‘90 ma gli echi di quell’erotismo sono in qualche modo arrivati fino al 2002 e ancora di più nel 2004 (e l’abbiamo già detto cinque anni fa). Peter/Tobey è un ragazzo innamorato, eternamente imbambolato. Il personaggio scartato di un’eventuale undicesima stagione di Beverly Hills 90210 che può solo sognare ciò che non può avere: non può avere MJ, appena a una finestra di distanza, non può avere il rispetto dei suoi coetanei per la sua indiscutibile intelligenza e non può neanche avere un lavoro sicuro che gli garantisca una certa stabilità nella Grande Mela. A dire il vero quest’ultima parte è invecchiata spaventosamente bene. Certo a furia di preoccuparsi di ciò che non può avere, Peter si lascia a poco a poco sfuggire quello che ha già: un amico sincero, Harry (che gli piaccia ricordarlo o meno, un ottimo James Franco), i suoi due amorevoli zii, praticamente fuoriusciti dai disegni di Ditko e dei discreti occhi azzurri che non si è mai preoccupato troppo di far notare sotto gli occhiali.

Peter, e lo spettatore con lui, inizia così un viaggio all’interno del corpo e dei cambiamenti, un viaggio spaventoso nell’ignoto che la regia di Raimi ci mostra in tutta la sua inquietante scabrosità e che l’ottimo Riccardo Ferrari ha interpretato nell’immagine di copertina. Un corpo tormentato da spasmi e febbre, che accoglie in sé un’altra natura potenzialmente mostruosa e che rinasce a nuova vita mostrando un “cambiamento smisurato”. È certamente un corpo che subisce una mutazione genetica ma anche ormonale, è lo stesso zio Ben a ricordarcelo. I lancia-ragnatele organici poi, altra eco della visione di Cameron, saranno certamente funzionali allo snellimento della sceneggiatura ma non si può negare quanto siano appropriati in un film sul corpo adolescenziale in mutamento. Quale ragazzino nella crescita del resto non ha mai sparato fluidi appiccicosi dal proprio corpo nell’intimità della sua stanza?
Quella di Raimi e dello sceneggiatore David Koepp è un’artigianalità che poggia pesantemente sull’ingenuità sia del protagonista quanto degli spettatori, i quali provenivano, almeno quelli squisitamente dei cinecomics novecenteschi, da una narrazione del superomismo ancora non del tutto emancipata. Non che fossero mancati capolavori del genere negli anni precedenti. Esattamente dieci anni prima, Batman Returns era già uno dei migliori film del decennio con tutta l’azione, lo humor e l’erotismo che un buon film di supereroi richiedeva. Ma appunto era un “solo un film di supereroi” a cui forse mancava, diremmo oggi, l’identità di genere. Spider-Man è figlio dell’ingenuità giocattolosa degli anni ‘90 ma è proiettato negli allora ancora ignoti anni 2000 con la stessa forza con la quale il protagonista omonimo si proietta nell’affollato vuoto di New York. È inseguito tuttavia da un vecchio che non accetta di invecchiare e di essere messo da parte. Un vecchio che anche lui vuole giocare e dimostrare di essere pronto agli anni 2000, ma il suo corpo, rinchiuso in una discussa quanto riuscita armatura paramilitare, è di diverso avviso ed è per questo che si fa aiutare nei movimenti da un’aliante armato di tutto punto, un vero e proprio deambulatore aereo. E che dire di un altro vecchio amabilmente odioso che farnetica di arricchimento come una persona normale, di fantomatiche minacce mascherate e con un sigaro che oggi non troverebbe spazio in nessun film Marvel Studios? Forse “J.J.K. Simmons” è il personaggio invecchiato meglio in questi vent’anni.

20 anni dopo, comunque, Spider-Man non nasconde i segni del tempo, come del resto non li ha nascosti di recente il suo protagonista e forse è per questo che è più facile amarlo. Sembriamo averlo dimenticato ma nel 2002 il film fu accolto da recensioni tiepide e fu il pubblico a osannarlo e a favorire la sua rivalutazione (il pubblico e il sequel, indiscutibile capolavoro). Sarebbe troppo facile parlare di eredità in un film che ha già vent’anni, ma non ce la sentiamo primo perché implicherebbe il realizzare che chi aveva dieci anni allora ha trent’anni adesso (fidatevi, non è una consapevolezza di poco conto). E poi davvero l’epopea del ragno può dirsi conclusa? No, non stiamo parlando di un ipotetico – e a dirla tutta neanche tanto desiderato – Spider-Man 4, quanto del genere in sé che è più vivo che mai e che, come nel fumetto di Bendis e Bagley, attira su di sé polemiche e detrattori. Quello dei cinecomics di supereroi è un genere che vive continuamente dilaniato da due paure: quella di invecchiare e quella di non essere più credibile. È per questo forse che da Spider-Man in poi il tempo ci sembra come congelato o almeno rallentato. Diciamo pure invischiato in una ragnatela. Ciò non toglie però che il genere muti, si adatti, affronti dei traumi e si migliori, anche grazie alle sue paure. Al netto del cinismo commerciale Sony, ciò che è venuto dopo Spider-Man è un folle multiverso che a giorni al cinema vedrà sciogliersi molti dei suoi nodi. Alla regia, non a caso, ancora Sami Raimi.

Buon compleanno Spider-Man. Cento di questi universi.
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