
Non c’è niente come “Andor”
Vera croce di ogni recensore è il paragone, un supplizio inevitabile, talvolta sopportabile, altre volte ingestibile. Paragonare è l’anticamera della cattiva valutazione, nonché una delle forme più eleganti di compromesso: dire qualcosa chiamando in causa qualcos’altro. Non è una croce perché è difficile ma proprio per l’esatto contrario, perché è facile, troppo facile paragonare A e B dicendo che sono simili o diversi senza però avere ben chiaro cosa siano A e B. Si citano registi, scrittori, scene, riferimenti, tutti sfoggi di erudizione autoreferenziale che rendono la croce del paragone un po’ meno ipocrita. Si contano sulla punta delle dita poi i casi in cui si può legittimamente dire che un prodotto non è come niente visto finora, un qualcosa di veramente inedito. Andor è uno di quei casi in cui cominciamo a contare perché è un prodotto che conta: non c’è niente come Andor.

«La nostra parola d’ordine? Evitare il Fan-Service!» così Tony Gilroy presentava Andor, la sua serie, ai microfoni di IGN. Tony Gilroy è un affascinante sessantaseienne che ha alle spalle un curriculum di tutto rispetto. È lo sceneggiatore de L’avvocato del Diavolo (1997) con Keanu Reeves e Al Pacino, di Armageddon – Giudizio Finale (2000) di Micheal Bay e regista di Micheal Clayton (2007) con George Clooney per il quale ottenne una nomination agli Oscar come miglior regista. È anche lo sceneggiatore della serie cinematografica di Bourne. Entra in LucasFilm nel 2015 con quel capolavoro che è Rogue One: A Star Wars Story, film diretto da Gareth Edwards (Godzilla, 2014), ma scritto e sceneggiato anche da lui. A spulciare la biografia di Tony Gilroy si rimane sorpresi per un dettaglio: non è sudamericano.

Andor è la quintessenza della serie americana, anzi panamericana. Strumenti e mezzi tipicamente hollywoodiani al servizio di una storia audacemente latina: una ribellione sporca, mercenaria, quasi piratesca e una regia pulita, magistrale a tratti quasi documentaristica. Sono molti i rimandi alla cultura partigiana dei paesi latini, a cominciare dalle vere origini del protagonista, un amazzone galattico, un indigeno strappato al suo popolo da una forza colonizzatrice, passando ovviamente per il già noto Saw – “guerrigliero” – Gerrera fino alle ambientazioni selvagge e incontaminate di alcuni importantissimi episodi. Paradossalmente, l’effetto di Andor è quello sì di aver raccontato una grande storia, ma non era probabilmente questa la sua intenzione. Perché una storia come quella di Andor, a ben guardare, la si poteva raccontare (male) anche in un numero ridotto di episodi. Quello che Andor vuole fare è impostare fin da subito un linguaggio (che certo passa anche dalla lingua, è il primo prodotto Star Wars ad avere una parolaccia) che non sia accessibile a tutti ma che tutti o almeno il più possibile devono sforzarsi di imparare. Una scelta politica di grande impatto. In altre parole, la serie non chiede allo spettatore di proiettarsi nei personaggi, ma “solo” di respirare la loro aria, di seguire i loro passi, di giungere alle loro stesse conclusioni, di stare male per i loro desideri e per la loro sete di libertà. Finite Mandalorian e vorrete un armatura in Beskar. Finirete Andor e vorrete iscrivervi a un sindacato.

Pensate come Luther Rahel – uno Stellan Skarsgård in stato di grazia – mentre cerca di mandare avanti una ribellione con ogni mezzo necessario. Pensate come Syril Karn, un tenero fascistoide ossessionato dal riempire un vuoto dentro di sé con un perverso e appassionato senso del dovere. Pensate come Mon Mohtma, una divina Genevieve O’Reilly, mentre viene chiamata a compiere sacrifici impossibili. Non c’è spazio per gli eroismi in Andor, solo scelte e conseguenze. Non ci sono villain in Andor, bensì programmi politici e politici programmatici. Dedra Meero (Denise Gough) ad esempio non è una villain (al massimo solo un’antagonista) ma un perfetto esempio di coerenza tra vita pubblica e politica, l’esatto opposto del protagonista almeno nelle sue fasi iniziali. Non c’è niente come Andor, né in tutto Star Wars men che meno in tutto Disney+. Ma c’è un ma.

No, non parliamo di difetti (davvero, non ce ne sono) e neanche di paragoni, ma c’è un ma. Andor è sì un ritorno alle origini non solo di Star Wars (e anzi a dire il vero neanche tanto) – non è mistero che Lucas avesse preso come fonte di ispirazione le storie della resistenza della Seconda Guerra Mondiale – ma all’estetica primigenia di Lucas. Se volete conoscere uno dei padri putativi di Andor, non guardate a Guerre Stellari ma un film ingiustamente dimenticato (e spesso sconosciuto anche ai fan di Star Wars) di George Lucas: THX – 1138 (in Italia L’uomo che fuggì dal futuro). Sei anni prima di Star Wars, Lucas aveva confezionato un’opera di rara bellezza, mai più ripetuta (era essa già del resto lo sviluppo di un suo precedente cortometraggio) nel quale la ricercatezza stilistica e di linguaggio erano al servizio di una storia potente che altro non era che un manifesto politico contro la tirannia del consumo. Andor nasce da lì. Se THX fuggiva dal futuro, Andor fugge dal presente ma sempre seguendo lo stesso viscerale percorso di fuga ed emancipazione che passa dal rifiuto delle abitudine acquisite. Andor si nasconde persino nel sesso occasionale e nel più tenero e decoroso dei tradimenti per paura, nei compromessi impensabili e nei rischi non calcolati.

Un discorso a parte e finale merita il personaggio di Karis Nemik (con il volto pieno di belle speranze di Alex Lawther). Nemik è la quinta essenza del personaggio lucasiano. Un character con un ruolo così definito da rasentare l’essenza dell’action figure. Nemik è un pupazzo, un feticcio a tutti gli effetti con tanto di accessorio incluso, nel suo caso un “sinistro” manifesto. È ancora un periodo d’oro per la rivisitazioni storiche nel mainstream (Wakanda Forever, Mercoledì…) ma Andor in questo senso fa qualcosa in più. Non potendo rifarsi almeno dichiaratamente a un periodo storico terrestre ben preciso, la serie compie direttamente il passo successivo e si inoltra, sia pure in maniera accennata ma decisa e inconfondibile, verso la lotta di classe. La rivoluzione in Andor batte il ritmo di due martelli su un’incudine, chiama gli oppressori “bastardi” e germina nei luoghi di sfruttamento e alienazione, tipo le catene di montaggio e le fabbriche/prigioni. E ha come sottofondo l’apparato ideologico fondamentale di chi teorizza, prepara e spera nella Rivoluzione. «Proletari di tutta la Galassia unitevi»? No, non lo diremo. Lo farà casomai Nemik in una ormai quasi certa seconda stagione mentre i rivoluzionari di ogni pianeta ascolteranno il suo manifesto. Che sia la volta buona che, con lo strumento della finzione intergalattica, a questo giro il suo messaggio non venga frainteso o strumentalizzato.
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[…] spesso in tiepidi e momentanei entusiasmi, quando non in scottanti delusioni. Il barlume è Andor, che pur non arrivando tra le nostre dieci prime scelte, dimostra una maturità stilistica e […]
[…] comunque un brodo allungato in questo 2023 che ormai è abituato agli standard qualitativi di Andor. Si aspetta, per carità, la terza e ultima stagione che speriamo sia una degna conclusione non […]