Il salario della paura – Dinamite sulla Nuova Hollywood | Speciale William Friedkin
In memoria di William Friedkin, con sei dei suoi film migliori, celebriamo una delle figure più intransigenti del cinema hollywoodiano del XX secolo, irripetibile indagatore del cuore di tenebra americano che ha saputo immaginare per noi una Hollywood diversa, rimanendone sempre un outsider.
Il titolo italiano è più rigoroso dell’originale. Il salario della paura, perché così si chiamava – Le salaire de la peur – il romanzo del francese Georges Arnaud (1950) già portato sullo schermo dal maestro H.G. Clouzot. Era il 1953 e in Italia, tanto per complicare le cose, passò come Vite vendute. Del titolo originale William Friedkin non sapeva che farsene. Il suo film, badate bene, un secondo adattamento e non un remake (per quanto la dedica sui titoli di coda vada proprio a Clouzot, morto nello stesso anno), è del 1977 e si chiama Sorcerer, che vuol dire stregone. Gli ingredienti sono gli stessi del doppio originale, letterario e cinematografico: azione, suspense e fragilità esistenziali. In realtà, sarebbe più corretto chiamarlo: “il film che venne subito dopo Star Wars“.
Quando si parla di Nuova Hollywood e dintorni, la fonte è sempre Peter Biskind. Il suo Easy Riders, Raging Bulls è la bibbia laica del più folle decennio nella storia del cinema americano. Estate del 1977, il trailer de Il salario della paura, fresco di moviola, fa capolino in sala. Passa subito prima di Star Wars e non è una scelta saggia. Il film di Lucas è colorato, trascinante, ha una morale tagliata con l’accetta e personaggi che trasudano empatia. Niente di più lontano, ideologicamente e formalmente, dai due minuti di preview del film di Friedkin. Culto dell’antieroe, ruvide psicologie, decostruzione del genere, critica antimperialista e rifiuto delle concessioni (bye bye lieto fine). Fantastico, peccato che non ci sia più un pubblico, per roba così.
Il peggio deve ancora venire, prosegue Biskind. William Friedkin, che dirige L’esorcista (1973) seduto su una seggiolina che porta al centro il suo nome, a sinistra l’Oscar come miglior regista per Il braccio violento della legge (1971) e a destra una statuetta con un punto interrogativo (non ne arriveranno più), adesso ha paura di Star Wars. Corre a vederlo al prestigioso Chinese Theatre di Los Angeles con la moglie di allora, Jeanne Moreau. Proprio al Chinese è previsto che debutti Il salario della paura, nel giro di un paio di settimane. Lucas gli toglie certezze: magnifico lavoro, ma per filosofia e rapporto con il pubblico è quanto di più lontano dal suo modo di intendere il cinema. E piace, tantissimo. Scambia due parole nervose con il titolare della sala. Sa, dice, fra poco arriva il mio film. Risposta: signor Friedkin, se il suo non funziona rimetto subito Star Wars.
Facile profezia. La tardiva rivalutazione del film, peraltro non universalmente condivisa, non cancellava agli occhi di William Friedkin lo smacco di un duplice colossale tonfo, di pubblico e di critica. Neanche nove milioni di dollari incassati, a fronte di un budget di dodici-quindici. Per intenderci, Il braccio violento della legge era costato poco meno di due milioni, mentre L’esorcista otto perché la lavorazione era durata un’eternità, altrimenti sarebbe costato meno. Parlando dei due precedenti si trattava, con il primo film, di riscrivere, scavandole dall’interno, le regole del poliziesco urbano. Poi, di trascinare un orrore vecchio di millenni nella contemporaneità razionale. A metà degli anni ’70, William Friedkin poteva fare, essere, qualunque cosa. I suoi film piacevano a tutti. Ci riuscì anche, per un po’.
Il salario della paura è co-prodotto da Universal e Paramount; a capo della Paramount c’era Charles Bludhorn, in affari tramite la major con la Gulf and Western e, di fatto, proprietario di gran parte della Repubblica Dominicana, offerta come set per gli esterni. Parlandone spavaldamente con i vertici degli studios, a mesi dall’uscita, il regista americano profetizzava un incasso di circa novanta milioni di dollari. Cos’è andato storto? Nei quattro anni che separano Il salario della paura dalle scorribande sataniche di Linda Blair, il paradigma del cinema americano d’autore era profondamente mutato. Lo squalo (1975) e l’onnipresente Star Wars (1977) camuffavano le rispettive complessità dietro un senso per l’avventura più tradizionale e una morale basica. Non aiutò il titolo originale, l’allusione al misterioso sorcerer/stregone, né il bassorilievo in apertura raffigurante un’enigmatica creatura demoniaca. In molti pensarono, sbagliando, a un film sulla falsariga de L’esorcista.
Pure, elementi per stimolare l’interesse del pubblico ce n’erano, a cominciare dalla micidiale asciuttezza di una linea narrativa capace di sovrapporre cuore esistenzialista e pulsazione action a tratti insostenibile. Quattro protagonisti. Kassem (Amidou) è un terrorista arabo operativo in Israele. Scanlon (Roy Scheider) l’autista di una gang di malviventi del New Jersey che ha appena tentato, fallendo, un colpo in chiesa (!). Victor (Bruno Cremer) è francese ed è dovuto scappare per guai finanziari con i soldi del suocero; ha anche un morto sulla coscienza. Nilo (Francisco Rabal) è un killer a pagamento. Più di questo, su di lui, non sappiamo. Sono dovuti scappare in fretta, hanno trovato riparo alla fine del mondo.
Sepolti nell’umidità subtropicale di una giungla da qualche parte in Sudamerica. C’è una grossa multinazionale del petrolio che affama i locali e ruba tutta la ricchezza che può. Un incendio in una raffineria che va spento. La dinamite è lontana chilometri ed è rimasta immobilizzata per troppo tempo; perde nitroglicerina, basta una lieve scossa e scoppia tutto. Bisogna trasportarla lo stesso per chilometri e chilometri, lungo strade accidentate e parecchio improvvisate, sapendo che ogni passo può essere l’ultimo. Una missione suicida, pagata l’impossibile. Sia un ultimo rigurgito di avidità, il disperato bisogno di fuga dallo squallore o un’insperata chance di redenzione. Fatto sta che i quattro accettano.
Le cose cominciarono a guastarsi già in fase di pre-produzione. William Friedkin sa che le asprezze del film, leggi la morale nerissima e i rigurgiti esistenziali, vanno bilanciate in qualche modo e un cast prestigioso è la soluzione migliore. Steve McQueen la parte di Scanlon l’aveva persino accettata, giudicando lo script il migliore che avesse mai letto. Ma aveva bisogno di tenersi vicino la moglie Ali MacGraw, di qui la richiesta di trovarle una parte, o di accreditarla almeno come produttrice esecutiva. Niente da fare. Per Marcello Mastroianni era impossibile, nonostante l’approvazione al copione, allontanarsi da casa per più di sei mesi, per via della separazione da Catherine Deneuve e dei discorsi relativi alla custodia della figlia Chiara. Lino Ventura era disposto a fare il secondo in comando a McQueen, non a Roy Scheider. Del cast originale, sopravvive solo Amidou.
Senza star conclamate, con il sex appeal del film che cola a picco – la popolarità di Roy Scheider, reduce dal monumentale successo de Lo squalo di Steven Spielberg, era tanto ma non abbastanza – tocca al nome di William Friedkin colmare il gap con il pubblico. Almeno questa era l’idea: vendere Il salario della paura come la pura espressione di una delle visioni irriducibili della Nuova Hollywood. Un capolavoro, a dispetto degli oltraggi inziali, il film lo è sul serio. Rinuncia all’estenuante prologo che è il punto forte dell’originale di Clouzot – serviva allo spettatore per sentire la noia esistenziale dei personaggi – e mantiene la barra dritta sul nucleo tematico, l’azione sotterranea e intangibile di una forza che plasma e condiziona le traiettorie umane. Ha tanti nomi: Caso, Destino, Fortuna o Fato; è lo stregone del titolo.
Si trattò davvero di pessimo tempismo? Archiviato il Watergate, senza più Nixon a far da collante alla controcultura, conclusa ingloriosamente la guerra del Vietnam, i tempi erano maturi per la stagione del riflusso (Reagan è in arrivo). Il salario della paura è il film giusto al momento sbagliato. Lo script di Walon Green, sceneggiatore de Il mucchio selvaggio di Peckinpah, è percorso da antieroi sgradevoli e moralmente compromessi, fatalismo, suspense e una morale impietosa: non si sfugge al destino. La sonorità elettroniche e incalzanti dei tedeschi Tangerine Dream – Friedkin ne era talmente soddisfatto da rimpiangere di non averci lavorato prima – animano il film di un incanto acido e onirico. Notevole il lavoro sugli ambienti; la foresta, minacciosa e inospitale, è un esotico privo di esotismo. Il livello di maturità necessaria per affrontare il film non era più di casa presso il pubblico americano.
L’arroganza non pagò, nell’immediato. Il giudizio dei posteri è differente e oggi il film riceve il plauso e la considerazione che merita. Di arroganza si parla, perché una proposta così, scavata nel cuore del sistema degli studios e dannatamente anticommerciale, è il frutto di una sensibilità artistica in odore di onnipotenza. Il salario della paura è il vanity project di William Friedkin, la seducente ma pericolosa illusione di sfuggire alla trappole della fama, ai meccanismi dell’industria e alla mannaia della combo critica pubblico. In un’intervista di qualche anno fa con Nicolas Winding Refn, il regista americano suggerì che forse, forse, il paragone con L’esorcista era meno campato in aria di quanto si pensi. Chi andò in sala aspettandosi una sorta di sequel sotto mentite spoglie, aveva poco senso della realtà. Pure, sottolinea il regista, qualcosa c’è.
Entrambi i film aderiscono a un terreno comune, che è quello del mistero. Tuttavia, mentre l’horror esplora il mistero della fede in termini puramente sovrannaturali, con Il salario della paura l’idea era di indagare il mistero del destino e la fragilità della condizione umana da un punto di vita crudo e realistico. Forse troppo crudo e realistico per gli spettatori. La verità è che il film raccontava più di quanto il suo regista fosse disposto a riconoscere. L’angoscia di quattro improbabili eroi che penetrano la foresta aspettandosi di saltare in aria da un momento all’altro, allude al tramonto di una stagione irripetibile per il cinema americano.
La Nuova Hollywwod, la carriera di William Friedkin – trovate un autore dell’epoca che non abbia sofferto un analogo clamoroso flop nello stesso periodo – erano esposte allo stesso destino implacabile (il cinema in serie). Su quei camion, a fare i conti con le rispettive fragilità, c’erano tutti: Coppola, Scorsese, Cimino, Bogdanovich. La carriera di William Friedkin non è più stata lo stessa dopo Il salario della paura. Il consenso critico non è mancato, è l’appeal presso il pubblico che è andato via via scemando. I successi dei primi anni ’70 non hanno trovato replica. William Friedkin pensava sul serio di scampare al destino di tutti quelli che vivono il cinema come un’arte: soccombere agli squali. La forza del film è la coerenza in e fuori scena. Regista e personaggi si buttano, illudendosi di farcela. Sappiamo bene che non ce la faranno, ma ci hanno provato ed è fantastico.
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