
“Black Panther: Wakanda Forever” è un attacco all’entertainment
Che brutta parola che è entertaiment. Una parola franca senza franchezza che mal cela un desiderio di riconoscimento e autorevolezza, ma al tempo stesso si svincola da ogni responsabilità e coerenza. In un mondo che è già distopico anche se non lo vogliamo ammettere, l’entertainment è una blanda risposta a una preghiera collettiva ed eterogenea che chiede sollievo e se possibile salvezza. Stretto dalla macchina commerciale, l’intrattenimento si riproduce continuativamente e proprio come un rituale si consolida negli spazi del nostro tempo quotidiano, il tempo di noi fedeli. Capita poi che la macchina commerciale, che è azionata – è bene ricordarlo – da altri fedeli a loro volta, sforni prodotti (o risposte a preghiere se vogliamo) talmente riusciti da farci dubitare della religiosità sovrastrutturale dell’intrattenimento e renderci parte di un processo che è continuo scambio e messa in discussione di riti e processi. Un po’ come dovrebbe essere la democrazia. Capita che in un mondo dove i fascismi e i nazionalismi dominano il mercato, un prodotto di quel mercato sia talmente controcorrente da risultare quasi problematico. Perché se un film non si limita a intrattenere e basta ma cerca di essere qualcosa di più, allora è già condannato per aver fatto troppo. Capita che esca in questo 2022 Black Panther: Wakanda Forever di Ryan Coogler, un film che ha moltissimo da dire oltre ad intrattenere e lo fa talmente bene da essere quasi un problema, un attacco all’entertaiment se vogliamo e di quella ritualità alla quale placidamente ci votiamo. Allora forse il problema non è il film ma il sistema dell’intrattenimento il quale, essendo alla continua ricerca di perfezionamento, finisce per bucare prima lo schermo e poi sé stesso, facendo così fuoriuscire quella voce che grida a squarciagola la sua necessità di non essere più solo distrazione di massa e delle masse ma distruzione. Perché sì, Wakanda Forever è un film che distrugge.

Rispondiamo subito a una domanda che sorge spontanea da simili premesse: Black Panther: Wakanda Forever è un film impegnato? No, affatto, perciò state tranquilli. Chi odia ed è stanco dei film di supereroi qui non troverà pane per i suoi denti. Se i film Marvel vi hanno stancato non date neanche una possibilità al film di Ryan Coogler di “intrattenervi” perché sicuramente non vi troverete di fronte a una perla estetica di Mubi o a un manifesto rivoluzionario del XXI secolo. Wakanda Forever è un film di supereroi con CGI, effetti speciali a profusione, un numero elevato di personaggi e tanta, tantissima azione. Poi c’è la storia. È già stato detto a sufficienza come questo film sia un unicum nel panorama dei cinecomic per il suo modo di affrontare la morte, ancora prima che uscisse nelle sale. Il film è un giusto e doveroso tributo a Chadwick Boseman e al suo T’Challa, entrambi portati via da una “strana malattia”. Perciò sì, la dimensione del lutto e del distacco è presente durante tutta la durata del film, in particolare all’inizio e alla fine, ma senza mai essere ingombrante o eccessiva, solo giusta. È dal lutto che si ramificano gli altri temi principali, quali la sofferenza («solo chi ha sofferto può essere un grande leader»), il rapporto tra fede e ragione e tra scienza e tradizione, i nazionalismi e i vecchi rancori, la perpetua ricerca (e quindi dipendenza) da parte delle nazioni “sviluppate” delle risorse e dei metalli rari (vibranio ma leggasi “uranio”) che porta allo sfruttamento di interi stati e popolazioni e infine ovviamente la tragedia della guerra. Sono tanti temi e ovviamente non potevano essere liquidati in poco tempo, perciò diffidate di chi vi dice che il film poteva essere più breve. Non poteva e se lo fosse stato sarebbe risultato frettoloso. Con indiscutibile maestria, a ognuno dei tantissimi personaggi viene affidato lo svisceramento di tematiche importanti e pesanti.

Dopo un toccante prologo, il film parte con una dichiarazione fortemente e audacemente politica, in cui si fanno nomi e cognomi di almeno due nazioni storicamente colonizzatrici e schiaviste, ma in generale che punta il dito contro un sistema “bianco” di sfruttamento e neo-colonialismo che in questi anni sta raggiungendo nuove e inquietanti vette. Lo sfruttamento genera sofferenza e la sofferenza genera rancori che saranno caricati sulle spalle di leader rancorosi. È il caso del Namòr di Tenoch Huerta il quale dimostra di disprezzare la superficie a più livelli e di amare invece la profondità. Se infatti amate il Nàmor della superficie, figlio del capitano Leonard Mckenzie, di una principessa atlantidea e di un’Atlantide greco-romana allora difficilmente apprezzerete il Namòr di Huerta. Se invece vi portate dai fumetti il rancore, l’altezzosità, la rabbia e la potenza dell’essere sottomarino che ha più volte dichiarato guerra al mondo di superficie e ha inondato la nazione della Pantera Nera, allora amerete questa trasposizione reinventata, tradotta ma non tradita e che, a cominciare dalla pronuncia del suo nome, mette il giusto accento su questioni importanti come rappresentanza, identità e – perché no – rivoluzione. Il Namor di Huerta è poi un tributo non solo al mondo del fumetto, ma al ruolo che certi fumetti hanno avuto nella storia dei diritti civili. Namòr, come la sua controparte cartacea, è anch’egli il primo mutante e il primo nel MCU a identificarsi come tale. E in un cinema mainstream dove bianchi sovra-rappresentati si scoprono vittime di poco credibili discriminazioni (vedi tutto il Wizarding World per fare un esempio) “come gli ebrei“, l’MCU e la Marvel ci ricordano cosa vuol dire essere veramente un diverso e un discriminato e quindi, nella maniera più autentica, un mutante. In questo senso la Marvel non tradisce appunto la sua eredità, ma fa quello che ha sempre fatto ovvero parlare del “mondo fuori dalla finestra“. Non era possibile chiedere un esordio migliore per il ritorno dei mutanti al cinema.

Al re sottomarino si contrappone la protagonista indiscussa, Shuri la quale, a dispetto della dell’attrice che la interpreta, si affida totalmente alla scienza e al raziocinio per tentare di affrontare la perdita del fratello. Il valore del personaggio di Shuri è duplice: da un lato la sorella di T’Challa si ritrova ad affrontare la pesante eredità lasciatele dal fratello e a misurarsi con i doveri della Pantera Nera e ciò che essa rappresenta non solo per il Wakanda, ma per tutte le persone nere nel mondo; dall’altro ella è il perno attorno a cui ruota un cast di comprimari di altissimo valore, dalla sorprendente Nakia di Lupita Nyong’o passando per il sempre simpatico e ora decisamente più saggio Winston Duke, vero e proprio mentore per Shuri, che la aiuteranno e la guideranno nel suo difficile percorso di crescita. Ma la vera regina della scena e non solo è certamente Sua Maestà Ramonda che vince a mani Bassett (battuta voluta) per pathòs e gravitas. La psicologia di Shuri è quindi qui indagata e scomposta anche nelle sue parti più oscure, merito anche di un cameo probabilmente non del tutto inaspettato ma certamente sorprendente. La ricerca di Shuri è senza dubbio un percorso interiore tra i più belli e profondi mai visti in un film del MCU nel quale ognuno degli spettatori può legittimamente trovare una parte di sé. Infine la guerra, altro grande tema centrale di questo film, anch’essa sviscerata e messa in scena nei suoi molteplici per quanto assurdi aspetti. C’è il già citato nazionalismo di Talocan e del Wakanda, entrambe nazioni potentissime e non disposte a cedere alle necessità dell’una e dell’altra; ci sono i rancori secolari, qui frutto della Storia nella storia; ci sono le rivalità tra guerrieri (doveroso un plauso mai abbastanza grande al duo Danai Gurira e Alex Livinalli, rispettivamente Okoye e Attuma, che ci regalano in questo film delle prove atletiche di altissimo livello); e ci sono infine le necessità materiali della guerra, vero motore di ogni conflitto, che sono bene affrontate nella sottotrama di Everett Ross (anche qui affiancato da un cameo azzeccato e sorprendente).

Certo, parliamo pur sempre di un film dei Marvel Studios (ammesso che questo sia un limite) ed è immancabile anche in questo caso quel senso di proiezione verso il futuro (o per i più cinici di “investimenti futuri) tipici di queste produzioni. Parliamo ovviamente del personaggio di Riri Williams che a mesi sarà protagonista di una serie tutta sua su Disney+. Eppure, il suo personaggio appare tutt’altro che forzato e anzi restituisce al film uno sguardo ambivalente al passato e al futuro. Scenderà più di qualche lacrimuccia ai fan Marvel Studios della prima ora per le azzeccate citazioni al primo Iron Man che il personaggio di IronHeart ci regala. Le lacrime vere però sono sapientemente sparse qua e là in tutto il film, sia in momenti di pura bellezza estetica (finalmente un uso sensato della slow motion), sia in scene particolarmente concitate e mozzafiato che vi faranno letteralmente balzare sulla poltrona. A visione conclusa lo spettatore cinico che cerca due ore e quaranta di distrazione si sentirà irrimediabilmente tradito e deluso e si nasconderà dietro etichette quali “cultura woke” per non dare l’impressione di farsi abbindolare da ideologie utopiste. Vuol dire che l’hackeraggio è riuscito perché la falla era ben evidente. A quel punto solo chi dentro ha molto può lasciarsi travolgere dalla portata emozionale dell’onda di Black Panther: Wakanda Forever. Gli altri avvertiranno solo un fastidioso vuoto di due ore e quaranta.
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