
Frontiere virtuali – Da “The Last of Us Pt. 2” al VR | Sul cinema e il videogioco
Appena pochi giorni dopo la timida apertura dei cinema in italia, usciva per PlayStation il videogioco The Last of Us Parte II, inaugurando una fragorosa sequela di reazioni – per lo più entusiastiche – che sembra non accennare a sopirsi. C’è da chiedersi fin da subito se quest’opera riuscirà a valicare i confini entro cui, finora, l’esperienza videoludica è stata (e si è) relegata, o se, invece, resterà qualcos’altro.
Si tratta dell’attesissimo seguito di The Last of Us, sviluppato da Naughty Dog e pubblicato nell’ormai lontano 2013. Il gioco sconquassò completamente l’ecosistema videoludico, con le critiche del settore in assoluto visibilio a lodarne la grafica, il gameplay e, soprattutto, la trama. È chiaro che un sovvertimento delle possibilità narrative era già in atto, ma quel gioco ne aveva accelerato il ritmo e la risonanza.
The Last of Us Parte II ha cambiato nuovamente le regole di un sistema ormai sempre più difficile da decifrare, ponendosi istantaneamente come metro di paragone per il futuro di un’intera industria culturale. Sorvolando sulle meccaniche propriamente ludiche, l’opera si spinge ad un livello di introspezione dei suoi personaggi raggiunto da pochissimi altri titoli, offrendo punti di vista alternativi, sollecitando nel giocatore interi apparati di valori, sollevando questioni etiche e identitarie che raramente avevano convissuto con tanta naturalezza entro un gioco. Tutto questo sostenuto da uno sviluppo sopraffino, teso al raggiungimento di un nuovo standard visivo.
Il risultato è un’immersività totale con l’ambiente, che, unita allo zenit della motion capture, illude il giocatore di muoversi dentro un film, in cui alle sequenze cinematografiche si alternano, con perfetta fluidità, quelle in cui è ammessa l’interazione. L’intensità di The Last of Us Parte II è stata raggiunta in anni di lavoro congiunto fra sviluppatori e squadre di sceneggiatori (fra cui Halley Gross, Westworld, Too Old to Die Young), dialoghisti e attori professionisti, tutti coordinati da Neil Druckmann, co-ideatore del franchise e director per Parte II, un ruolo sempre più assimilabile a quello di un regista cinematografico.

Prima di proseguire, un disclaimer: chi scrive non gioca.
Dopo questa ammissione avrò perso la fiducia e l’interesse dei gamer più integralisti, e rimarranno quelli che, come me, sono per lo più spettatori di altro, e che avranno già capito in che direzione mi sto muovendo. Una direzione, però, di cui non si conosce esattamente la meta.
Di qualcosa di simile avevamo già parlato in occasione dell’uscita di Death stranding (2019), il gioco di Hideo Kojima (ideatore dell’acclamata saga di Metal gear) in cui i personaggi principali erano interpretati da attori hollywoodiani. La riflessione aveva rintracciato alcuni fulgidi esempi di contaminazione fra i media per concludere con l’invito ad allargare il proprio orizzonte critico d’analisi.
Il discorso fatto allora rimane valido, ma nel frattempo qualcosa è successo. Il lockdown globale ha generato un collasso totale del mondo dello spettacolo, delle sue dinamiche e delle sue liturgie. Mentre alcuni di noi hanno già ripreso a spiare i cartelloni dei cinema e a prenotare posti in sala, altri avvertono la vertiginosa sensazione che quanto accaduto in questi mesi sia irreversibile. Quelli raggiunti dal videogioco sono solo alcuni dei molti esiti di processi crossmediali e prospettive tecnologiche avviate ormai da tempo (e non certo in una manciata di mesi), la cui presenza è resa quanto mai ingombrante dal grande assente: il cinema. Queste nuove forme di che statuto godono? Ha senso legittimarle ed equiparale al cinema? O sono soltanto miraggi, pratiche transeunti, vizi di un progresso per immagini incontrollato, o – se si vuole – che richiedono uno specifico campo d’analisi scevro da punti di vista inquinanti?
Il caso dei videogiochi rimane, ancora una volta, emblematico. Un comparto industriale che nel 2019 ha generato più di 120 miliardi di dollari (molto più di quanto insieme fanno cinema e musica) e che, a prescindere da titoli narrativi come The Last of Us Parte II, ha assorbito in maniera gargantuesca una moltitudine di pratiche, migrando le sue funzioni dal confezionamento di prodotti alla fornitura di servizi totalizzanti di intrattenimento.
Non stupisce, allora, che gli studi teorici sui videogiochi abbiano a lungo cercato di affrancarsi da altre discipline, prima fra tutte la teoria e la critica del cinema. Un oggetto di studi indipendente, delimitato con rigore all’inizio di questo secolo (fondamentale in questo senso The Video Game Theory Reader, 2003, di Mark J. P. Wolf e Bernard Perron), ma in costante – e incontrollata – espansione causata dai progressi tecnologici e dal graduale allargamento dei mondi diegetici.

Eppure fra i primi a gettare uno sguardo più sistematico sui videogiochi furono proprio i teorici del cinema e i giornalisti di settore. In quello che oggi è considerato come uno dei numerosi “tentativi di colonizzazione” da parte di altre discipline, è curioso come già negli anni ’90 giornalisti dei Cahiers du cinéma (Alain e Frédéric Le Diberder) parlassero di “decima arte” riferendosi al videogioco, per poi includerlo (o rinchiuderlo) fra le ennesime frontiere del cinema (CdC, giugno 1996), dopo il digitale, i video clip e lo sperimentale (CdC, aprile 2000), fino a dedicarci un intero editoriale (CdC, settembre 2002). Una suggestione oggi forse naïve, ma comprensibile per l’indubbia seduzione che il videogioco esercita sul critico di cinema per le potenzialità narratologiche e per i paradigmi di produzione sempre più simili.
Per quanto ci si illuda, la realtà è che i videogiochi sollevano e rispondono a ipotesi neanche lontanamente azzardate dal medium cinematografico. Lo schermo è di per sé barriera fra un’opera filmica e il suo spettatore, in un rapporto ben definito di ruoli. Il gioco è un ponte, un dialogo fra i suoi algoritmi e il giocatore. Anzi, per lungo tempo i videogiochi sono stati depositari di ipotesi su come la relazione umana con le immagini avrebbe potuto cambiare. Ribadendo le insidie di un approccio multidisciplinare, J. P. Wolf e Perron tentano una nuova sommatoria sul progresso della teoria in The Video Game Theory Reader 2 (2009); scomodando nientemeno che Francesco Casetti, stabiliscono la volontà dei video game studies di emanciparsi dai film studies, proprio come i film studies si erano emancipati dall’arte nella prima metà del XX sec.
Per scongiurare un approccio comparativo la teoria metodologica ha marginalizzato il dibattito accademico sulle interrelazioni, ma l’osservatore critico continua a sentire il richiamo dei videogiochi, o almeno del loro impatto culturale. Che fare quando è il videogioco a disturbare il cinema? Al cinema non si assiste più solamente a meri adattamenti, rivisitazioni cinematografiche di trame o personaggi videoludici (l’ultimo è Sonic del 2020, ancora in sala), ma a sviluppi paralleli, ampliamenti o lanci congiunti per cavalcare l’hype del pubblico.

Vale la pena citare il caso Star Wars, un franchise nato in sala ma fin da subito transmediale, che coi videogiochi (Jedi: fallen Order, 2019, per ultimo, ma con molti altri per lo più confluiti in Legends) colma le lacune della saga cinematografica (per approfondire si recuperi la nostra masterclass dedicata). Un altro esempio è la serie anime Cyberpunk: Edgerunners, annunciata da Netflix e prevista per il 2022, ennesima occasione di risonanza per l’arrivo di Cyberpunk 2077, il gioco di CD Projekt RED (di cui Netflix cura l’adattamento anche di The Witcher) che promette altre novità e l’avvio di una vera e propria moda.
Segno dei tempi sono gli annunci, uno avvenuto la scorsa settimana, di due nuovi adattamenti: Fallout, scritta da Jonathan Nolan e Lisa Joy (Westworld, ancora) per Amazon Studios, e lo stesso The Last of Us, scritta da Druckmann e Craig Mazin (Chernobyl) per HBO, entrambe le serie ambientate in un futuro post-apocalittico. Persino l’unità minima di interazione – la scelta – fino a poco tempo fa prerogativa esclusiva del gioco, è stata sintetizzata in nuove vesti anche dal cinema. È il caso del già citato Black Mirror: Bandersnatch (2018, Netflix), che potrebbe avviare un filone di film interattivi, o dei film in VR, in cui lo spettatore vive una cosciente partecipazione in uno spazio filmico di cui sono cadute le barriere perimetrali.
Senza dilungarsi sugli esempi, è chiaro che il cinema abbia assorbito con meno difficoltà il fenomeno, includendone le potenzialità in una grammatica espansa e riconoscendone l’importanza anche in eventi festivalieri (Venice VR alla Biennale Cinema, Sundance New Frontier et al.). Parlando di VR, impossibile ignorare quanto sta facendo la casa di produzione Within di Chris Milk e Aaron Koblin (supportati da Unity), di cui Life of Us è forse il progetto più interessante: un gioco-film interamente in realtà virtuale.
#PleaseStandBy. @Fallout @BethesdaStudios #KilterFilms pic.twitter.com/IEDr7AkVvD
— Amazon Studios (@AmazonStudios) July 2, 2020
Ciò dovrebbe legittimare a non ignorare quanto di cinematografico avviene nel mondo videoludico, a prescindere dall’effettiva esperienza di gioco. D’altronde un’enorme porzione dell’audience dei videogiochi si può rintracciare sulle piattaforme di game streaming, come Twitch (Amazon), Mixer (Microsoft) e YouTube Live (Google), dove quotidianamente sono trasmesse, anche in live, sessioni di gioco condotte da professionisti e amatori. Un fenomeno curioso, ma diffusissimo, come questo, indica che il gioco viene esperito in modi che non prevedono l’interattività, parificando sessioni di gioco o walkthrough ad altri contenuti video di intrattenimento.
Incuriosisce poi la spasmodica rincorsa di una mimesi “fotorealistica”, di una “grafica cinematografica” nei fatti ormai raggiunta. Nella tech demo di Unreal Engine 5, motore grafico di Epic Games, realtà filmata e mondo virtuale non sono più distinguibili. Per risaltare i risultati grafici e le soluzioni cinematografiche, sempre più titoli offrono l’opzione di rimozione dell’HUD, ovvero l’interfaccia di gioco con indicatori e barre di stato. Ghost Of Tsushima, in uscita fra pochissimi giorni, non disporrà nemmeno della suddetta opzione, mentre offrirà una modalità in bianco e nero espressamente votata all’omaggio del cinema di Kurosawa.

Per ultimo il cinema sembra essersi reso conto che alcuni giochi non siano soltanto occasioni di svago o servizi di intrattenimento, ma anche luoghi di aggregazione. È il caso della collaborazione fra Warner e Fortnite, il popolarissimo gioco di Epic Games che ha implementato nella sua modalità Party Royale la “Notte al cinema – Movie Nite”. Su uno schermo simil drive-in, all’interno del mondo di gioco, è stata trasmessa una versione estesa del trailer di Tenet, mentre nei giorni scorsi sono stati “proiettati” per intero altri film di Christopher Nolan.

Questi appena indicati sono solo esempi, affioramenti da un universo vastissimo.
Adesso, mentre un’industria culturale in macerie chiama alla ricostruzione, agli spettatori spetta una scelta: fare finta di nulla o lasciarsi annegare in una moltitudine di forme di narrazione e figurazione, in cui il linguaggio propriamente filmico risulta sempre più ibridato. Nel caso si scelga la seconda opzione, bisogna rivedere la propria idea di cinema, sia essa acquisita con esperienza o con studio.
Il videogioco è solo una – nemmeno la più lampante – delle forme dell’audiovisivo contemporaneo. Nella stessa galassia sarebbe doveroso includere altro, ma non è questa l’occasione; mapparla, d’altronde, è quasi impossibile, soprattutto senza le giuste premesse teoriche. Anche se individuate, alcune forme rimarranno sfuggenti, altre, come il videogioco, vorranno sfuggirci.
L’esito più ovvio di una ricerca di questo tipo è la previsione di un futuro in cui le barriere fra i media non avranno più senso. Similmente a quanto avviene in Piccolo schermo gigantesco, la rubrica in cui cerchiamo di perimetrare l’influenza delle arti cinematografiche sull’immaginario di scrittori contemporanei italiani, sarebbe interessante – quanto vano – ipotizzare su quali riferimenti di oggi potrebbero costruirsi gli immaginari delle nuove generazioni. Magari una Rosebud del futuro giace accatastata in questa galassia audiovisiva, cui sempre più spesso ci si riferisce con postcinema.
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
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