
Un transnazionalismo critico – Intervista a Leonardo De Franceschi
Leonardo De Franceschi insegna Storia del cinema all’Università Roma Tre. Si interessa di produzioni audiovisuali riconducibili a soggetti e gruppi subalterni, diasporici e transnazionali e dei modi di negoziazione della narrazione nazionale dominante in Italia. Ha pubblicato numerosi saggi sul cinema del Terzo mondo e del colonialismo: fra questi spiccano Lo schermo e lo spettro. Sguardi postcoloniali su Africa e afrodiscendenti (Mimesis Edizioni, 2018) e Il nero di Giovanni Vento. Un film e un regista verso un’Italia plurale (Artdigiland, 2021).

Originale, almeno nel mondo accademico italiano, è stata la tua scelta di concentrare l’attenzione sulla produzione cinematografica di “gruppi subalterni, diasporici e transnazionali”. Come è nata questa intuizione, e a quali modelli, italiani o stranieri, guardava?
Questa suggestione è nata da una doppia esigenza, una di carattere più emotivo-affettivo e l’altra più etica e politica: dopo anni in cui mi ero dedicato allo studio delle cinematografie africane, arabe e diasporiche, ho ritenuto importante riorientare la barra della mia ricerca sulle narrazioni dell’altro e dell’altrove prodotte nel nostro Paese e sul progetto di costruzione dell’Italia plurale tra cinema e media perché ritenevo e ritengo più che mai necessario e urgente lavorare in questa direzione. Si tratta di due aspetti fortemente interconnessi di cui parlerà tra l’altro nel libro Migrazioni, cittadinanze, inclusività. Narrazioni dell’Italia plurale, tra immaginario e politiche per la diversità, in uscita a mia cura per tab edizioni, che raccoglie gli interventi di un convegno a Roma Tre del maggio 2021.
Le ragioni della violenza istituzionale e simbolica inferta contro cittadinə che non hanno la «pelle giusta», basti pensare allə afrodiscendenti residenti in Ucraina rimastə fuori dall’accoglienza selettiva della generosa Europa, hanno molto a che fare con la nostra incapacità, come italianə ed europeə, di fare i conti col nostro passato, e in modo particolare col colonialismo e con la storia profonda del razzismo, sul piano delle teorie, delle politiche, delle pratiche diffuse. L’aspetto emotivo-affettivo era il desiderio di fare squadra e costruire un percorso diretto di sostegno, dialogo e vicinanza con direttə interessatə e protagonistə (“filmmaker” nell’accezione più ampia) di questo percorso in essere verso l’affermazione di un cinema italiano della pluralità.
Uno dei concetti fondamentali de Lo schermo e lo spettro, forse il più celebre dei tuoi libri, è quello del fardello della rappresentazione, che hai definito “una sorta di riedizione asimmetrica del white man’s burden di kiplinghiana memoria, che vincola registi africani e afroriscendenti all’obbligo di rispondere al repertorio di stereotipi e messaggi allineati lanciati dal cinema mainstream“. Quali radici storiche ha questo concetto, e in che modo si esplica nel cinema black contemporaneo?
Il concetto viene dai Black Cultural Studies britannici e in particolare dal critico Kobena Mercer (1994), ma, anche tramite la mediazione che ne hanno dato Robert Stam ed Ella Shohat in Unthinking Eurocentrism (1994), è stato poi diversamente declinato anche negli Stati Uniti, da Trinh T. Minh-Ha e anche in altri contesti. Continuo a ritenere che la gabbia epistemica decostruita a suo tempo da Mercer sia tuttora ben presente, e riguarda a ben vedere, in questo momento drammatico anzitutto per le sale cinematografiche, non solo lə creativə “razzializzatə”, o, se preferite, dal background migrante. Tocca però in particolare loro perché il rischio di etero- e autoghettizzazione rimane alto: si tende ad aspettarci da loro che raccontino se stessi, o un gruppo sociale di cui sarebbero diretta espressione (“i migranti”, “le seconde generazioni”, la propria comunità d’origine ecc.) quando invece dovrebbero essere lasciatə liberə di costruire e sviluppare la propria visione in piena autonomia, punto.

Uno dei capitoli de Lo schermo e lo spettro affrontava la figura di Omar Sy, al momento della pubblicazione del libro ancora sospeso tra il grande successo di Quasi amici, il desiderio di reinventarsi in patria e l’ambizione di trovare un suo posto a Hollywood. Nei cinque anni passati da Lo schermo e lo spettro, come pensi si sia evoluta la figura di Sy? In questa analisi di un possibile divismo nero, quanto ha contato la fenomenologia del divismo proposta a suo tempo da Edgar Morin, e quanto invece ti sei rivolto a riflessioni di autori più strettamente connessi a questioni di rappresentazione razziale?
Il caso di Omar Sy mi ha interessato per la sua specificità ma anche perché dimostrava, anzitutto in Francia ma anche in un contesto europeo e internazionale, che anche un attore afrodiscendente poteva sviluppare una dimensione divistica e attivare ricadute importanti a livello di mercato anche per altrə interpreti afrodiscendenti e dal background migrante. Nello specifico, credo che Sy abbia giustamente riorientato il proprio raggio d’azione sul mercato francese, mettendo tra parentesi le ambizioni hollywoodiane, ma allargando la sfera alla serialità, penso per esempio al successo della serie Netflix Lupin, che ha esteso anche tra i giovanissimi il suo pubblico di riferimento, senza derogare a una maschera attoriale che combina azione, humor, ma anche l’ambizione di incarnare storie della pluralità contemporanea, in cui anche segmenti tradizionalmente sottorappresentati possano riconoscersi. Per quanto riguarda gli studi, sicuramente il modello di Morin ha avuto un peso ma più ancora gli studi di Richard Dyer, tra i primi attenti alle intersezioni tra attorialità, divismo, performatività e modi di rappresentazione connessi a “razza” e “bianchezza”.
Nel capitolo “Cineasti afroriscendenti del duemila” facevi un lungo excursus sui cineasti di colore attivi in giro per il mondo – esponenti di quello che a volte viene chiamato cinema diasporico nero. Tra questi, menzionavi anche Abdellatif Kechiche, che, dopo aver esordito con una trilogia di film sull’integrazione, e aver realizzato il dramma storico Venere Nera, con La vita di Adele era sembrato rivolgersi a nuove tematiche LGBT. L’annunciata trilogia di Mektoub My Love, interrottasi dopo la presentazione di un Intermezzo a Cannes a causa di polemiche tra il regista e l’attrice Ophelie Bau, ai tuoi occhi come prosegue il discorso di Kechiche sull’identità, razziale o sessuale che sia?
Non sono riuscito a vedere il secondo capitolo della trilogia, passato solo a Cannes, ma credo di poter dire, avendo riflettuto un po’ sul primo, che purtroppo Kechiche sia finito su un binario morto, forse per la pretesa di andare fino in fondo ai propri demoni interiori, espressivi e non. Ed è un peccato perché Kechiche ha portato al cinema europeo degli ultimi vent’anni un metodo di direzione attoriale originale e una pratica di tournage in grado di produrre un felice cortocircuito neomodernista tra arte e vita. Ma lo ha fatto forse appunto esigendo troppo dallə propriə interpreti e credo sia giusto e opportuno che venga lasciato libero di ritrovare la propria voce e uno spazio di agibilità nel sistema mediale di oggi, sempre più irto di difficoltà e tentazioni di cedimento.

Ne Lo schermo e lo spettro accennavi anche alla figura di Ryan Coogler, che dopo l’indie Prossima fermata Fruitvale Station stava ai tuoi occhi tentando “una rischiosa operazione di riposizionamento” avendo accettato di dirigere Creed, lo spin-off della saga di Rocky. Adesso, dopo il successo di Creed e ancor di più di Black Panther, il primo film di supereroi con protagonista un nero, come pensi sia posizionato Ryan Coogler all’interno dei meccanismi dell’industria hollywoodiana? Quanto invece la società di produzione A24 di recente fondazione sta dando voce a una nuova generazione di cineasti afroamericani?
Devo dire che da qualche tempo seguo con meno attenzione le dinamiche del cinema black american. Coogler sta continuando ad investire sul concept Black Panther, di cui è in uscita il sequel a novembre. La A24, dopo Moonlight di Jenkins, sta portando avanti con grande coerenza la sua linea di un cinema e di una serialità indipendenti e in grado di valorizzare talenti non solo neri in grado di dare molto al cinema statunitense, penso per esempio al Lee Isaac Chung di Minari (2020), premiato con l’Oscar per la miglior attrice non protagonista.
Molte delle produzioni cinematografiche degli ultimi anni, soprattutto quelle proposte da piattaforme come Netflix, sono state accusate da alcuni critici e spettatori di essere fin troppo indulgenti e vincolate verso il cosiddetto “politicamente corretto” – un dibattito riacceso dopo la vittoria di CODA agli Oscar. Sempre più spesso si parla della possibilità che le produzioni americane debbano dotarsi di un numero minimo di professionalità appartenenti a minoranze etniche o sessuali, davanti e dietro la macchina da presa. Da studioso di tematiche postcoloniali e di questioni di rappresentazione, come ti poni in questo dibattito?
Sono assolutamente favorevole alle politiche per la diversità attivate dagli Academy Awards, in qualche modo ispirate anche al modello britannico del BFI e dei BAFTA. La ragione è chiara, non è più solo necessario aprire narrazioni in grado di includere sul piano tematico gruppi sottorappresentati, e non basta nemmeno più mettere qua e là un interprete black o gay per strizzare l’occhio a una determinata nicchia di pubblico, occorre spalancare le porte dell’industry dell’audiovisivo a creativə di tutte le provenienze, in- e soprattutto off-screen. Inutile dire che noi in Italia siamo lontani anni luce dall’aver preso consapevolezza di questa necessità e anche la stampa specializzata interviene spesso in merito solo per abbaiare alla dittatura del “politicamente corretto”. Netflix e gli altri player che investono sulla diversity lo fanno per massimizzare i profitti e non certo per ragioni politiche, ma io credo che avere più spazi di agibilità possa aiutare a “normalizzare” e quindi a rafforzare la presenza nell’industry di talenti dal background migrante, fidelizzando il pubblico e creando le condizioni per narrazioni anche più radicali e meno “addomesticate” all’ethos neoliberale dominante.

A proposito di Oscar, ha fatto il giro del mondo l’immagine dello schiaffo dato da Will Smith al presentatore Chris Rock, dopo una battuta sulla moglie Jada Pinkett. A detta di alcuni commentatori questo schiaffo avrebbe “mandato in cortocircuito” gli assertori del politicamente corretto, mentre alcune star appartenenti alla comunità nera americana si sono lamentate del fatto che quello schiaffo, trasmesso in mondovisione, avrebbe riportato alla luce un modello negativo e retrogrado di “maschio nero”. Quali pensi siano state le implicazioni, pratiche e teoriche, di questo episodio?
Come tutti gli episodi di cronaca che sono occasione di un dibattito soprattutto mediatico e da social, il gesto di Rock e quello che ne è seguito non mi ha particolarmente coinvolto. Evocare il “politicamente corretto” significa fare il gioco di una retorica tossica, e purtroppo spesso bipartisan, in Italia, e portare acqua al mulino di un’economia discorsiva retrograda, sessista, razzista, omobitransfobica e abilista. Mi limito a dire che Rock poteva e doveva astenersi: l’episodio ci ricorda quanto sia importante adottare uno sguardo intersezionale, quando si affrontano fatti o questioni associate alla violenza di genere, ma anche che il patriarcato non ha colore.
Dopo Lo schermo e lo spettro, hai pubblicato per Artdigiland un’analisi de Il nero di Giovanni Vento, un film perduto del cinema black italiano che tu hai contribuito a riportare alla luce, fino alla proiezione di una copia restaurata al Festival di Torino del 2020. In che modo sei venuto a conoscenza de Il nero di Giovanni Vento? Come hai contribuito alla sua riscoperta e al restauro?
Ho scoperto Il nero intorno al 2013, quando lavoravo al libro L’Africa in Italia. Da lì è partito un progetto di recupero della memoria del regista e di questo film girato a Napoli e presentato nel 1967 a Berlino. Il film ricordava quanto i cosiddetti “figli neri della Madonna”, nati nel dopoguerra grazie alla presenza della Quinta Armata, e a lungo considerati come “corpi estranei” come documenta bene Silvana Patriarca ne Il colore della Repubblica, fossero semplicemente giovani italiani, con desideri, sogni e insofferenze tipiche di quella generazione pre-Sessantotto.
Progetto lungo e complicato perché i materiali originali del film erano (e rimangono) dispersi, e non esistevano studi sul lavoro di Vento. Sono stato io a sollecitare diverse cineteche, negli anni, a sostenere questo progetto, e alla fine ha risposto positivamente il Museo Nazionale del Cinema, grazie alla sensibilità dell’allora presidente Sergio Toffetti. Ora il restauro c’è e anche un libro che ricostruisce genesi e fortuna del film, ma mi auguro che, con l’avallo degli aventi diritto (Movietime e Compass di Libassi), si arrivi a renderne più agevole la visione, in Italia, tramite l’intervento di una piattaforma magari, e all’estero, penso soprattutto al circuito arthouse e universitario dei dipartimenti di Italian Studies, dove susciterebbe sicuramente interesse.

Come denunciato anche da altri intellettuali come Igiaba Scego, in Italia c’è un vero e proprio “rimosso coloniale”, la dimenticanza del passato coloniale del nostro paese. Mettendo da parte Il nero, quali altri film del Novecento pensi abbiano affrontato seriamente la tematica coloniale? Ci sono film o documentari più recenti che, ai tuoi occhi, hanno ripreso la questione in maniera efficace?
Il cinema italiano, nonostante la tensione civile che aveva animato molti registi nel dopoguerra e negli anni Sessanta, ha fatto poco o nulla per sostenere un processo di revisione della memoria condivisa intorno al colonialismo. L’unico romanzo importante, Tempo di uccidere di Ennio Flaiano, ha prodotto nel 1953 un progetto non realizzato e solo nel 1989 è stato trasposto su grande schermo, con risultati inferiori alle attese per la regia di Giuliano Montaldo. Negli anni Sessanta e Settanta, c’è stata un’ondata di interesse nei confronti dell’Africa dei nuovi Paesi indipendenti, di cui sono testimoni diversi film di Pontecorvo, Pasolini, Orsini, Bennati, Giannarelli, Lizzani ma non evocavano mai, guarda caso, il colonialismo italiano bensì solo quello francese o portoghese. Indirettamente quindi, anche il nostro cinema ha contribuito a riprodurre la narrazione tossica degli “italiani brava gente”, con poche eccezioni, come i lavori di Massimo Sani per la televisione. Negli ultimi anni, diversi progetti di non fiction hanno finalmente avviato un progetto di revisione, a partire anche dai materiali d’archivio; penso a diversi film di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi (su tutti Pays barbare), ma anche Luca Guadagnino (Inconscio italiano), Valerio Ciriaci (If Only I Were That Warrior), Alan Maglio e Medhin Paolos (Asmarina), Loredana Bianconi (Oltremare), Sabrina Varani (Pagine nascoste). Ne ho scritto in un saggio pubblicato sugli Annali dell’AAMOD nel 2021.
Una delle scene-madri di Professione: Reporter di Michelangelo Antonioni mostra il videogiornalista interpretato da Jack Nicholson tentare di intervistare un africano, a cui subito chiede come sia possibile che un uomo che abbia studiato in Europa sia tornato nel suo villaggio a fare lo “stregone”; l’altro uomo risponde “signor Locke, potrei darle risposte perfettamente esaurienti a queste domande, ma non credo che lei potrebbe imparare un granché da queste risposte. Le sue domande rivelano molto di più sulla sua persona di quanto le mie risposte su di me”, e, detto questo, inverte la macchina da presa ad inquadrare uno smarrito Jack Nicholson. Con i suoi sottofondi esistenzialisti, Professione: Reporter come si colloca nel discorso sulla rappresentazione?
Questa sequenza conteneva un’intuizione importante, che vale in parte a riscattare passaggi meno felici di Antonioni, come per esempio la scena di blackface in L’Eclisse. L’intuizione era quella di dare atto di un processo di presa di parola e di sguardo, in atto allora ormai da diversi anni, grazie a Youssef Chahine, Sembène Ousmane, Mohammad Lakdar-Hamina, per fare alcuni nomi, che nei Paesi dell’Africa araba e subsahariana, come facevano negli stessi anni in America Latina e in Asia, stavano costruendo una contronarrazione decoloniale, partendo da storie ancora ancorate a logiche di impegno rappresentazionale dichiaratamente didascaliche ma che avrebbero pian piano integrato le ragioni dell’individuo. Quell’intuizione, però, senza sminuire la rilevanza politica della scena che evocavi, è parte di un itinerario che porta il protagonista Locke ad attraversare Marocco e Ciad, ancora una volta Paesi estranei alla storia coloniale italiana.

Recentemente è arrivato al cinema Il legionario, incentrato su un poliziotto di colore incaricato di sgomberare il palazzo occupato in cui vivono, fra gli altri, anche sua madre e suo fratello – un film in tutta apparenza ispirato al controverso sgombero del Palazzo Curtatone. Il regista è Hleb Papou, classe 1991, nato in Bielorussia e arrivato in Italia nel 2003. In quale posizione si colloca un film come Il Legionario all’interno della griglia critica da te formulata? Quali altri film, tra le produzioni italiane degli ultimi anni, possono essere ricondotte a quei “soggetti e gruppi subalterni, diasporico e transnazionali” che tu hai da sempre eletto a protagonisti dei tuoi studi?
Il legionario di Papou, che viene peraltro dopo due cortometraggi molto belli, è la punta di diamante di un cinema italiano plurale in marcia, il cui percorso parte dai primi lavori firmati negli anni Novanta da Rachid Benhadj e Ferzan Özpetek, e proseguito nei Duemila da Mohsen Melliti, Haider Rashid, Fariborz Kamkari, Hedy Krissane, Laura Halilovic, Suranga D. Katugampala, Phaim Bhuiyan. Siamo dentro a un passaggio molto delicato, in cui la crisi delle sale e i primi segnali di cedimento anche sul versante delle piattaforme rischiano di tarpare le ali a un’intera generazione di cineastə, moltə dellə quali sono bloccatə all’opera prima o ancora aspettano di poter esordire al lungometraggio di finzione, dopo diversi corti e documentari importanti, penso a Dagmawi Yimer, Elia Moutamid, Keti Stamo, Amin Nour, Nour Gharbi, Mounir Derbal, Mohamed Hossameldin, Bagya D. Lankapura, Xin Alessandro Zheng, Daphne Di Cinto. Siamo sicurə che al Ministero della Cultura, nella commissione incaricata di monitorare l’andamento della produzione italiana, secondo quanto previsto dalla Legge cinema, o alla Rai, secondo quanto richiesto dal contratto di servizio sugli standard di rispetto del pluralismo, qualcunə si ponga il problema degli spazi di agibilità per lə creativə dal background migrante, italianə di diritto o di fatto? Io no, e credo di essere in buona compagnia.
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