
Political Moonlight
Viviamo tempi in cui molti sostengono che certi tabù non abbiano più senso di esistere; tempi dove certe etichettature sono giustamente messe al bando. Parole come “frocio” e “negro” sono per fortuna sempre più desuete, tanto da spingere i legislatori dei Paesi occidentali a produrre norme atte alla comminazione di sanzioni penali che vogliono rendere oggettivo il disvalore di certi comportamenti denigratori. Rimane però a volte solo paventato questo improvviso progresso, poiché, nonostante ottusità ed ignoranza – forse – siano sempre meno manifeste pubblicamente, nei fatti, nelle strutture sociali, nella produzione di arte, rimane comunque poco appropriato rappresentare storie particolari, magari di un ragazzo che vive in un quartiere difficile, e che, malauguratamente, ha gusti sessuali “diversi”.
In sostanza, il cinema è la rappresentazione su pellicola degli interessi di specifiche moltitudini, ed è l’Academy a rappresentare il bacino d’utenza più grande, in questo senso, definendo i canoni di ciò che alla maggior parte delle persone piace (o “deve piacere”, ma non scadiamo nel “complottismo”). Quando all’ultima cerimonia degli Oscar Moonlight, di Barry Jenkins, viene premiato come miglior film, è come se improvvisamente si fosse riaccesa una luce, seppur fioca, di speranza: una pellicola virtuosa, una rappresentazione di umanità, senza particolari demagogie, senza paura di raffigurare rapporti omosessuali, di ragazzi persi, neri, del ghetto.
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L’articolo è stato pubblicato il 2 aprile 2017 sul sito http://inchiostro.unipv.it/
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