
Minari – Una storia americana
Si è già detto da più parti della polemica sulla coreanità o meno di Minari, l’ultimo film di Lee Isaac Chung, dopo essersi aggiudicato il premio al miglior film straniero agli ultimi Golden Globes, e poi ricollocato agli Oscar nella categoria miglior film. Vero, l’inglese non è la lingua dominante del parlato del film, essendo confinato quasi soltanto ai confronti (pochi) tra la famiglia, coreana appunto, trapiantata negli States e la gente della comunità in cui vive. D’altra parte, le immagini raccontano di un lento processo di adattamento e di americanizzazione, per quanto le intenzioni del regista vogliano esaltare una integrazione bilaterale. Ma alla fine, lo sappiamo, quello che conta non è mica il linguaggio, così come non lo è la progettualità dello sguardo, la messa in forma, tutto il sistema del filmico. Conta invece soltanto il contenuto, quello che c’è da dire. Lo diciamo con una consapevolezza irritata e rancorosa, in semplice continuità con le parole spese da Scorsese qualche tempo fa sul saggio per Harper’s Magazine, “Federico Fellini and the lost magic of cinema”: viviamo il cinema come sola irreggimentazione dello storytelling, del contenuto, mentre i grandi maestri – che, per carità, ancora ci sono – sono “grandi non in sintonia con il cinema intorno e grazie a esso, ma nonostante tutto” (Emiliano Morreale nell’editoriale di FilmTv 08/2021, dedicato proprio alle parole di Scorsese). È la cosa più evidente di tutte; eppure, il criterio linguistico colloca Minari nella categoria dei film stranieri, per poi condurlo alla premiazione. Un’operazione subdola, quindi, un approfittarsi delle distinzioni tecniche soltanto quando fa comodo, da parte di un premio americanissimo, per rivendicare la liceità del dominio di un sentimento e un prodotto altrettanto americano anche “fuori categoria”, tra gli stranieri.
Senza voler rincarare la dose, dobbiamo altresì dire che con l’ipocrisia di queste scelte Minari non c’entra niente. A Lee Isaac Chung interessava solo dirigere un film (il quinto della sua filmografia) con accentuate venature autobiografiche, più personale, un titolo che a 40 anni fosse già il suo one last shot per abbandonare il cinema senza grossi rimpianti, e dedicarsi alla famiglia e alla cattedra di Cinema a Incheon, Utah. Poi però il progetto ha preso corpo con il sostegno alla produzione di Brad Pitt e la casa A24, e sono arrivati il Gran premio della Giuria al Sundance, il premio al miglior film straniero ai Golden Globe, e 6 nomination agli ultimi Oscar. E Minari funziona sicuramente per la misura di questa intimità autoriale, mai invadente o puntigliosa, registrata in particolare nelle idiosincrasie tra culture differenti, quindi in alcuni atteggiamenti di una micro-emotività inconscia e repressa dentro il piccolo David (Alan Kim), ideale riflesso dell’infanzia del regista, che di tanto in tanto è messa alla prova e zampilla teneramente.

Il padre di David, Jacob (Steven Yeun), decide di portare tutta la famiglia dalla California in un terreno agricolo dell’Arkansas, per rilanciarsi con la coltivazione di prodotti coreani e rivenderli in modo fruttuoso a Dallas. Jacob vorrebbe correre il rischio per far sì che lui e la moglie si liberino di un lavoro deprimente (controllare il sesso dei pulcini per deciderne l’utilizzo) e garantire una vita migliore ai figli, che delle origini coreane custodiscono soltanto i tratti e una lingua a cui sono peraltro refrattari (tant’è che i due fratellini, quando comunicano tra di loro, lo fanno in inglese). D’altra parte, la moglie Monica (Han Ye-ri) è preoccupata soprattutto per la precarietà di un’abitazione su ruote dispersa nel nulla e troppo lontana da un qualsiasi ospedale, che possa nella triste eventualità garantire delle cure agli sforzi cardiaci del piccolo David. L’ostilità e il disagio salgono quasi alle stelle con l’arrivo della madre di Monica, Soon-ja (Yoon Yeo-jeong, premio Oscar per la migliore attrice non protagonista). Bizzarra, fuori da una qualsivoglia canonizzazione del ruolo – gioca d’azzardo e non prepara i biscotti come farebbe una vera nonna, nota David –, Soon-ja impone in particolare al nipotino un riposizionamento dello sguardo, l’allentamento del pregiudizio sulle proprie origini. Con David pianta vicino a un ruscello alcuni semi di minari, una verdura coreana che cresce con facilità anche in condizioni particolarmente ostili. È l’evidenza metaforica, senza dubbio spicciola ma funzionale, di un germe coreano che attecchisce e sa imporre nuove radici.

Certamente, lo accennavamo all’inizio, oltre la volontà di evitare la dispersione dei tratti, dell’habit coreana, resta più marcata una americanizzazione quasi unilaterale, specie in rapporto alla complessa sfida della coltivabilità del terreno. Bisogna trovare l’acqua e Jacob rifiuta categoricamente qualsiasi pratica poco ortodossa e insincera proposta dagli americani per denaro. Sembra fare centro fidandosi solo di una sensibilità pratica e scientifica, in una sequenza ispirata in cui lui e il figlio David rivelano un’intelligenza acuta, tutta coreana; salvo poi accorgerci che è stato un fiasco, che l’acqua manca, e che pure Jacob alla fine accetta di affidarsi all’esercizio della rabdomanzia. Insomma, una circolarità narrativa facilona e persino ridicola in rapporto ai semi che erano stati piantati. Resta questa una mancanza non eccessiva, se rapportata al modo in cui Minari mette assieme un equipaggiamento da Academy, montando una carineria, una tenerezza senza dubbio del cinema coreano, con un dramma lieve che scansa i parossismi ma si concede alla lacrima facile. Furbate sì, ma addomesticate con criterio nel segno di un’immagine che predilige l’immediatezza nell’appiattimento, di una colonna sonora imbonitrice ma meravigliosa, e nel segno di un cast interamente in stato di grazia.
Le armi migliori vengono destinate alla parte conclusiva, che per quanto pervenga a un pathos quasi eccessivo in rapporto alle immagini precedenti, si impreziosisce nell’inquadratura dei corpi di Jacob e Monica avvinti tra loro, stretti nell’abbraccio che tiene assieme i pezzi ed evita lo sbriciolamento di fronte al dramma di un incendio. Nel frattempo, il piccolo David rompe gli indugi, ricolloca lo sguardo e corre incontro alla nonna per tornare tutti a casa. Una corsa che si libera dell’aritmia del cuore, dello sforzo, evocando romanticamente il Kore’eda del miglior cinema famigliare, che in Nobody Knows aveva incantato con lo slancio motorio, bellissimo, libertario, del suo piccolo protagonista. Ed è forse roba da poco, tornare a percepire quell’incanto?
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista