
Yervant Gianikian al Cineteatro Volta
Nessun vero appassionato di cinema può rimanere indifferente nel trovare inaspettatamente davanti a sé il lembo di una vecchia pellicola. Essa è al contempo embrione e vestigia di un universo di immagini, evocazione simultanea di riti remoti, sperimentazioni ambiziose e molto, molto altro. È la materialità di alcune immagini a pervaderci di sensazioni: a chi non è accaduto di stringere fra le mani la videocassetta del film preferito d’infanzia? Osservarne, socchiudendola, la pellicola, lisa dalle ripetute visioni? E chi, invece, imbattendosi in una vecchia diapositiva, non ha resistito alla tentazione di sollevarla, per studiarne in controluce le ferite del tempo? Chi non ha interpellato, dopo averla scovata in un solaio polveroso, l’enigmatica negativa di un ritratto di famiglia, sforzandosi di riconoscerci dei volti per poi arrendersi al fatto che nessuno potrà mai più farlo? Si potrebbe andare avanti, elencando infinite situazioni simili, tutte accomunate dalla medesima, sensazione: che il tempo trascorre, degradando le immagini, consumando i dispositivi per riprodurle, sbiadendo il ricordo da esse custodito. Non è solo cinefilia, dunque, ma qualcosa di più: è sensibilità storica. Mentre ai più non rimane che una vaga malinconia, c’è chi, di queste sensazioni e delle immagini da cui esse scaturiscono, ha fatto la propria ricerca estetica, dedicandoci l’intera esistenza. C’è chi si spinge oltre.
Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi sono due cineasti nati in Italia, e misurare la loro statura artistica riferendosi ad alcune delle situazioni sopra indicate sarebbe quanto mai riduttivo: essi non sono solo registi, ma storici, sociologi ed antropologi. La complessità della loro attività non permette a nessun critico di poterli annoverare in un definito movimento artistico o in una qualche moda figurativa: si tratta di un “lavoro etico” costantemente volto all’interpretazione del tempo, in grado di trascendere i limiti imposti da contingenze sociali e storiche e destinato pertanto a diventare patrimonio di una cultura transnazionale e comunitaria. Non si vergogni il lettore che mai ha sentito parlare di questa formidabile coppia d’artisti: in Italia il pieno riconoscimento dell’importanza del loro lavoro è giunto soltanto negli ultimi anni, un ritardo imputabile principalmente alla miopia dei critici e alla frustrante esitazione dei media nel presentare al grande pubblico il cinema sperimentale. La fama e i primi decisivi finanziamenti sono arrivati dall’estero, in particolare da ambienti francesi e americani, che presto hanno permesso la proiezione di alcune loro opere ai festival di cinema avant-garde e in alcune fondazioni d’arte contemporanea. Sono passati più di quarant’anni dall’inizio della loro collaborazione; ad oggi Gianikian e Ricci Lucchi possono vantare la loro presenza in alcuni dei musei d’arte più importanti al mondo: il Tate Modern di Londra, lo Fondazione Cartier di Parigi, la Caixa di Barcellona, il Mart di Rovereto, il MCA di Chigago, il Witte de With di Rotterdam, l’Hangar Bicocca di Milano per non parlare della proficua collaborazione con la Biennale di Venezia e delle retrospettive dedicategli dal MoMa di New York e dal Centre Pompidou di Parigi. Ai cinefili di razza basterà ricordare le proiezioni ai festival di Cannes, Locarno e Torino. Ogni riconoscimento, tuttavia, non vale la visione di una sola delle loro opere e, sebbene Gianikian e Ricci Lucchi siano i primi a marcare le differenze e le distanze tra le loro prime sperimentazioni e gli ultimi lavori, è funzionale alla loro presentazione un generale accorpamento su base tematica: come si è cercato di anticipare, l’intera opera dei cineasti ruota attorno al concetto di Storia, intesa come la continua stratificazione nella società di ricordi e sensazioni, minacciata nella sua essenza sia dai tentativi di univoca narrazione che da quelli di revisione. L’incessante lavorio su oggetti e pellicola oscilla tra il recupero di immagini altrimenti destinate alla decomposizione alla loro rivisitazione in chiave espressiva, soprattutto mediante un personalissimo uso del montaggio, quasi sempre lontano dai canoni del realismo. Un lavoro al contempo estetico e politico in grado di rendere vive, palpitanti e quanto mai attuali le tragedie collettive e individuali che hanno costellato lo scorso secolo: le guerre, i genocidi e le ideologie alla base di esse, e poi, ancora, ogni sopruso e negazione di libertà e reciprocità di genere, razza e cultura. Un secolo, dunque, che per i due artisti forse non si è ancora concluso. Nel 1975, Gianikian e Ricci Lucchi, dopo pochi mesi dal loro primo incontro, iniziano una convivenza ed una collaborazione che non vedrà mai fine. Le loro prime sperimentazioni prendono le mosse dalla passione di Yervant di catalogare “visivamente” attraverso la macchina da presa alcuni oggetti, specialmente i più carichi di memoria. Per acuire gli effetti della proiezione scelgono di associare ad ogni serie di oggetti specifici aromi, di volta in volta esalati durante le prime performance. Tra gli esempi più fulgidi della stagione artistica del “cinema profumato” vi è il cortometraggio Cesare Lombroso – Sull’odore del Garofano (1976): una carrellata di oggetti criminali appartenuti al celebre criminologo, accompagnata da effluvi di garofano, una delle prime opere nella quale s’insinua prepotentemente il tema della violenza e della classificazione del diverso. Gli artisti abbandonano progressivamente queste modalità performative quando, in via del tutto fortuita, scovano a Milano vecchi depositi di pellicole. Il ritrovamento fondamentale riguarda l’archivio di Luca Comerio, operatore dei primi anni del novecento, considerato per il suo spirito d’avventura il primo documentarista italiano. La visione di quelle pellicole obbliga i due film-maker ad una svolta tecnica e stilistica decisiva; dalla necessità di preservare i materiali riesumati e dall’audace volontà di modificarli e rimontarli in chiave ideologica nasce la camera analitica, invenzione di cui i cineasti sono particolarmente fieri e che, semplificando, è in grado di fotografare e filmare il contenuto di una pellicola in ogni suo minimo dettaglio. Dopo quattro anni di lavoro vede la luce Dal Polo all’Equatore (1986), lungometraggio in cui la narrazione etnocentrica, la violenza colonialista e la prepotente curiosità verso il diverso sono protagoniste. La visione è accompagnata da sonorità oniriche ed allucinanti; le azioni salienti sono rallentate all’eccesso per instillare in chi osserva angoscia e coscienza della propria visione. Quella del ralenti diventa per gli artisti uno degli interventi più ricorrenti nella loro produzione: esso diventa insostenibile in una delle loro opere più ambiziose, La trilogia della guerra: tre film, usciti nell’arco di circa un decennio (1995-2004), che, con i filmati girati da Comerio durante il primo conflitto mondiale, raccontano una guerra scevra di qualsiasi glorificazione, processo spietato di attribuzione del valore alla vita degli uomini, in grado di imprimere nelle loro menti e nei loro corpi ferite che non possono rimarginarsi. I registi ritornano sul tema coloniale in altre produzioni, in particolare Tourisme Vandale (2001) e Pays Barbare (2013), specificatamente votati all’osservazione del fenomeno imperialista del fascismo, la cui eredità ideologica affligge ancora oggi il popolo italiano, impedendone una matura riflessione storica post-coloniale.
Queste poche righe si prefiggono di destare curiosità e di invitare all’esplorazione dell’opera di Gianikian e Ricci Lucchi piuttosto che a fornirne un’esaustiva filmografia ed esaurirne le infinite implicazioni. Tutto, nel loro modo di fare cinema, parte dalla materialità e dai particolari del singolo fotogramma, interrogato infinite volte ed in grado di schiudersi a sempre nuove interpretazioni, senza raccontare mai la stessa storia. Una storia tragica che rischia di essere dimenticata e che si ripresenta continuamente. Pochi mesi fa Angela Ricci Lucchi, la mente teorica del celebre duo, si è spenta, dopo aver lasciato alla cultura contemporanea e all’universo del cinema uno straordinario apporto. Il suo inseparabile compagno di vita, Yervant Gianikian, ha recentemente presentato alla Mostra del Cinema di Venezia Noi due cineasti (2018), un affettuoso omaggio ad Angela attraverso la selezione di alcune delle pagine di diario che essa era solita scrivere e disegnare. Yervant Gianikian è ospite della seconda edizione della Summer School dell’Università di Pavia “La cura della memoria”, degna apertura dell’EX|ART Film Festival di quest’anno.
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[…] Per una breve presentazione di Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian, leggi anche qui. […]
[…] un progetto di revisione, a partire anche dai materiali d’archivio; penso a diversi film di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi (su tutti Pays barbare), ma anche Luca Guadagnino (Inconscio italiano), […]