
Antonioni / Barthes – Il cinema come critica del destino
Di Ludovico Cantisani
Sulla filmografia di Michelangelo Antonioni molto è stato affermato e poco è stato detto in ambito critico; e per quanto anche un fine filosofo come Gilles Deleuze dedichi al cinema antonioniano alcune delle pagine più dense de L’immagine-tempo, spetta probabilmente a un altro francese, il semiotico e scrittore Roland Barthes, il merito di aver scritto le pagine più fini, più delicate e più rivelatorie a proposito dell’opera filmica di Antonioni.

La circostanza era stata l’assegnazione ad Antonioni del premio Archiginnasio d’Oro da parte del Comune di Bologna, “per il suo impegno nel cinema neorealista” – definizione inaspettata, se non dissonante. Serviva un oratore per introdurre Antonioni al pubblico, e l’incarico arrivò a Barthes, del quale Antonioni aveva molto amato Frammenti di un discorso amoroso tanto da considerare di estrapolarne alcuni passaggi nell’irrealizzato Il colore della gelosia: e il discorso, diffuso con il titolo di Caro Antonioni (qui il testo integrale), divenne un piccolo capolavoro di scrittura e di calviniana leggerezza che, conducendo un’analisi attentissima dei grandi temi di fondo del cinema del “maestro di Ferrara”, portava avanti parallelamente una riflessione finissima, degna dei migliori scritti teorici di Barthes.

L’impulso strutturante del discorso di Barthes riguarda le tre virtù che, agli occhi dell’autore di Miti d’oggi, appartengono all’artista contemporaneo: “la vigilanza, la saggezza e la più paradossale di tutte, la fragilità”.
Che il cinema di Antonioni sia un cinema della vigilanza è facile da accettare: a differenza di Fellini, ben più sardonico ed empatico verso i suoi personaggi, Antonioni costruiva i suoi film da una prospettiva di estrema lucidità e franchezza, inquadrando con distacco uomini carichi di debolezze e ipocrisie; e a questo sguardo maturo, quasi ancestrale per la durezza dei toni, è facile attribuire anche la virtù della saggezza: «quel sapere morale, quell’acutezza di discernimento che gli permette di non confondere mai il senso e la verità».
La colpa di molti artisti, secondo Barthes, è quella di assolutizzare il senso, e «tale operazione terroristica generalmente si chiama realismo»: ma, con ben più lucida vigilanza, già in una intervista rilasciata a Godard una quindicina di anni prima Antonioni aveva affermato di provare “il bisogno di esprimere la realtà in termini che non siano affatto realistici”.

Chiarito in che senso ad Antonioni in quanto artista spettano le categorie della saggezza e della vigilanza, da dove deriva invece quel riferimento paradossale alla fragilità? Si può dire che questa fragilità si dispieghi in due diverse direzioni. Innanzitutto, l’artista «fa parte di un mondo che cambia, ma anche lui cambia; è banale, ma per l’artista è vertiginoso; poiché non sa mai se l’opera che propone è prodotta dal cambiamento del mondo o dal cambiamento della propria soggettività».
Questo è un elemento noto del cinema di Antonioni, ma sul quale al tempo stesso non si fa mai abbastanza luce, la sua apertura al Moderno: il modo in cui, senza mai voler fare cinema d’attualità, ogni film rifletta chiaramente e quasi filologicamente l’annata in cui venne girato, nei cartelloni pubblicitari, nei riferimenti culturali dei personaggi, negli sfondi urbani cangianti; il fatto insomma che il cinema di Antonioni è una testimonianza dell’Italia a cavallo del boom economico, o al rovescio, come rilevarono i Cahiers du Cinéma, la constatazione che Antonioni, di tutti i grandi registi italiani, sia stato l’unico a non aver mai fatto un film d’epoca.

Più illuminante e sorprendente è il secondo motivo di fragilità che Barthes scorge nell’opera di Antonioni, la “fermezza e insistenza dello sguardo”:
«Il potere, qualunque esso sia, perché è violenza, non può guardare; se guardasse un minuto di più, perderebbe la sua essenza di potere. L’artista, si ferma e guarda a lungo… [ma] quello che tu aggiungi a tale predisposizione, comune a tutti i cineasti, è il modo radicale di guardare le cose, radicale fino al loro esaurimento. Da una parte tu guardi a lungo ciò che, dalla convenzione politica (i contadini cinesi) o dalla convenzione narrativa (i tempi morti di un’avventura), non ti era stato chiesto di guardare. Dall’altra parte il tuo eroe preferito è colui che guarda (fotografo o reporter). Il che è pericoloso, poiché guardare più a lungo del richiesto (insisto su questo supplemento d’intensità) disturba gli ordini stabiliti»

Qui Barthes fa un passo decisivo, che porta il suo discorso sulla soglia del capolavoro critico: compie il passaggio dall’omaggio all’analisi trasfigurante. Trasfigurante perché, nell’analizzare la filmografia di Antonioni, Barthes vi trasferisce e vi ipostatizza a sua volta le proprie convinzioni personali, i propri stilemi critici, senza manipolare ciò di cui si parla ma anzi impreziosendolo di un senso nuovo. Ed è sempre riguardo al senso, questo concetto sdrucciolevole, che Barthes ha l’altra, profonda intuizione che da sola condensa tutto il suo testo: «nel corso della tua opera, c’è una critica costante, dolorosa ed esigente ad un tempo, di quella traccia profonda del senso che si chiama destino».
La critica del destino: una tale consapevolezza è liminare, rarissima anche nell’arte del Novecento ma, a ben vedere, è pienamente calzante per il cinema di Antonioni. Il suo è un cinema rigoroso ai margini dell’imprevedibile, proteso a rappresentare nella ferocia delle geometrie urbane le crisi più irrazionali di chi non si sa adeguare al nuovo ma non ha una radice da difendere. Se soprattutto i personaggi femminili incarneranno sempre più questo ideale di sradicatezza, la critica del destino si risolve innanzitutto nel rifiuto della forma tragica.

Da Cronaca di un amore a Zabriskie Point, da Le amiche a Blow-Up, tutto si può dire del cinema di Antonioni se non che in esso si trovi una scansione drammatica predefinita, scandita in atti, classica o anche solo lineare: e si arriva così al paradosso di Professione: Reporter, in cui l’ostinazione del David Locke di Jack Nicholson di seguire fedelmente gli appuntamenti del trafficante d’armi morto a cui ha rubato l’identità lo condurrà alla morte.
È strano parlare di un regista facendo l’analisi critica di un discorso in suo omaggio, ma per un regista su cui si sono spese già tante parole – ora su un supposto debito verso De Chirico, ora sul concetto di alienazione, ora su un pirandellismo di Professione: Reporter – criticare la critica e analizzare l’analisi è, in tempo di anniversari, la via stretta che conduce però alla comprensione. Certo il cinema di Antonioni resterà per sempre aperto alle esegesi, oggetto di un’interpretazione interminabile: perché, per dirla ancora una volta con Barthes, «la tua arte consiste nel lasciare la strada del senso sempre aperta… è proprio in questo che tu assolvi il compito dell’artista di cui il nostro tempo ha bisogno: né dogmatico, né insignificante».

Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista
[…] di attualità non poteva non tracciare un discorso semiotico, e morfologico. Era stato il francese Roland Barthes a proporre un modello di semiotica che di fatto si presentava come una vera e propria critica della […]
[…] si vede che non da ciò che si sa”. Da questo passaggio dei Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes prende le mosse L’atto di vedere, storico e influente saggio di Wim Wenders datato 1992 che, dopo […]
[…] co-protagonista se non come protagonista assoluta, alla tetralogia dell’incomunicabilità di Michelangelo Antonioni: le sue interpretazioni sofferte ed enigmatiche, a tratti seducenti, a tratti nevrotiche, tra […]
[…] moderno, che è nato con la rivoluzione francese. Per metterla in scena ho letto molto Bataille, Barthes, Simone de Beauvoir e, come già detto, […]
[…] immaginativa tra la vita reale e le vite possibili. Nei suoi Frammenti di un discorso amoroso, Roland Barthes parla del modo in cui l’innamorato vive la memoria e arriva a capire che il tempo del ricordo […]