
I diari di Angela. (Ancora) Noi due cineasti
La figura di Yervant Gianikian appare ancora più lieve. Il tempo sembra averlo spogliato dei suoi contorni, di un’essenza vitale e necessaria: la metà che lo completava da più di quarant’anni, Angela Ricci Lucchi, sua compagna nella vita e nella ricerca artistica, l’ha lasciato lo scorso febbraio. Ritorna al suo fianco nell’ultima opera del film-maker italo-armeno, I diari di Angela. Noi due cineasti. Un racconto del passato artistico e privato della coppia, scandito nei suoi momenti dal lento sfogliare di Gianikian di alcune pagine del diario di Angela.
Mosso da un’accorata suggestione di Alberto Barbera, direttore artistico della Mostra del Cinema di Venezia, Gianikian si cala in un coraggioso spoglio dei materiali di Angela e dei numerosi film privati, girati nell’arco di una vita intera: sono immagini ben diverse dalle consuete di storia violenta riesumate dagli archivi di tutta Europa; sono i “retroscena” del loro lavoro e dei loro viaggi di ricerca, momenti di vita quotidiana, intrisi di tenera semplicità.
Proprio come ogni opera precedente di Gianikian e Ricci Lucchi, il film reca la firma di entrambi quando è presentato per la prima volta al pubblico, nella sezione Fuori Concorso della 75ª Mostra del Cinema di Venezia. Il film sarà proiettato fra pochi giorni nella sezione Deep Focus del Festival di Rotterdam (IFFR), mentre in febbraio la prima statunitense si terrà al MoMA di New York.

I diari di angela. Noi due cineasti è un’opera dalla doppia anima, un continuo oscillamento tra la precisa volontà di affermare l’originalità del proprio progetto artistico – e delle relative modalità di ricerca – e un gesto privato. Un’alternanza marcata dal titolo, anch’esso doppio, suggerito a Yervant dalla stessa Angela a suo tempo. “Noi due cineasti” compare scritto a mano su una busta ritrovata da Gianikian, entro la quale Ricci Lucchi conservava una piccola parte dei suoi ricordi. Una mente rimasta così a lungo concentrata sulla storia e sul tema della memoria non poteva essa stessa che generarne altrettanta; di questo si compone l’eredità lasciata al compagno: appunti e diari a partire dal 1975, anno del loro incontro, risme piene di schizzi, rotoli lunghi decine di metri, traboccanti d’acquarelli (una passione profonda quella di Angela per il disegno, avvalorata dagli studi di pittura presso Oskar Kokoschka). Con i suoi oggetti la film-maker di Lugo invoca una nuova urgenza: non più quella di ricordare, di denunciare un passato rimosso o revisionato, ma quella di continuare a farlo, anche senza di lei. Yervant Gianikian l’ha capito. Dice che ha fatto un giuramento, la promessa di compiere nuovi progetti.
Le due ore del film avanzano sulla ripetizione di un canone, l’avvicendarsi alle pagine sfogliate e lette da Gianikian dei video ad esse sincronici. Tutto parte dal 1975, anno del loro incontro. Angela aveva girato un cortometraggio sulle festività mariane che a maggio ingentilivano le sue campagne romagnole; Yervant ne aveva recuperato l’8mm originale per aggiungerci strati di nuove immagini, una sovrimpressione di sguardi che suggella una congiunzione inscindibile. È il loro primo film: Erat-Sora. Le pagine che seguono sono di trent’anni più tardi. Angela racconta fiera l’apertura della retrospettiva NON NON NON, avvenuta nel 2012 all’Hangar Bicocca. Per la prima volta dopo anni di riconoscimenti esclusivamente esteri il loro Paese pare tributargli l’attenzione che meritano. L’amico Dominique Païni riprende i volti imbarazzati e felici del duo mentre alle loro spalle campeggia il manifesto contro un’arte dimentica del passato e disinteressata della politica.

Estemporaneo il passaggio a memorie privatissime: l’occhio di Yervant segue Angela durante uno dei numerosi soggiorni sulle langhe del Monferrato, alle prese coi montagnini che preparano il vino e tagliano la legna. In pochi attimi Angela ringiovanisce. Si asciuga i lunghi capelli nella cabina di una nave. È l’inizio di un viaggio che, come tanti altri, porta la coppia fra le rovine della storia. Si susseguono pagine e video, in vari formati, degli itinerari alla ricerca tormentosa delle vestigia del genocidio armeno. Il primo atto è in Turchia (1979), a bordo di un maggiolino targato Ravenna, il secondo in un’Armenia ancora sovietica (1987), in compagnia dell’amico attore Walter Chiari. In trasparenza sembrano scorrere le immagini delle loro opere sul tema armeno: Ritorno a Khodorciur. Diario Armeno (1986), Uomini anni vita (1990) ed il cortometraggio Io ricordo (1997).
Poi il viaggio a Mosca (1993) all’archivio documentario: Angela annota divertita le cene con gli altri ospiti dell’alloggio, amici della proprietaria, tutti a spese dei musei storici di Trento e Rovereto – committenti dei lavori – poi il sospetto dell’archivista sciolto soltanto dalla simpatia del suo gatto verso la coppia. Dal lavoro estenuante di visione e ripresa alcuni estratti che confluiscono nella Trilogia della Guerra (1995 – 2004). Le immagini trasportano Yervant e Angela ai festival di cinema documentario di Teheran e Sarajevo, in una Bosnia ed Erzegovina crivellata di colpi: è il 1996, la guerra è finita da poco. Vedono le trincee al confine con la Serbia: s’interrogano sull’istinto violento dell’uomo e sulle ragioni della guerra. Qualche anno dopo vedranno la luce Nocturne (1997) e Inventario balcanico (2000). Il film ripiega nuovamente sul privato: Ricci Lucchi lavora alla camera analitica nell’appartamento a Milano, poi cucina al lume di candela nella casa in collina; Gianikian sposta il suo obiettivo dalle mani di Angela al tramonto oltre la finestra. Ci sono i suoi disegni: quelli che raccontano dell’incidente a Yervant, quando nel 2014 gli esplose fra le mani una bobina di pellicola al nitrato, e quelli del viaggio a Leningrado (1989), poi esposti a Documenta 14 (2017). Alla fine le pagine smettono di scorrere e la voce di Gianikian si spegne. Alla fine c’è solo Angela: si aggira nel suo orticello, sorretta da una stampella; raccoglie i pomodori e si duole un poco di come gli insetti abbiano rovinato il suo umile raccolto. La sua voce è calma mentre la cinepresa di Gianikian la fissa. La scena si dissolve nel silenzio, mentre prende il via una brevissima sequenza di immagini. Angela si muove rapida nell’ombra delle calli veneziane, è giovane. È su una strada trafficata, fissa l’obiettivo. Poi il suo volto è nascosto da una piccola macchina fotografica usa e getta. Fotografa Yervant.
Tutta la loro vita ed il loro lavoro sono l’impressione di un sistema ottico, il guardarsi ed il guardare dentro un obiettivo. Nella coppia l’arte e l’amore sono reciproci e indissolubili. A chi la loro opera pare una troppo sofisticata riprensione sugli orrori dell’uomo, si concentri sulla semplicità del sentimento che l’ha generata.
Per una breve presentazione di Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian, leggi anche qui.
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