
Miracoli metropolitani e l’eterno (ri)ciclo dei vinti
Con Miracoli metropolitani Carrozzeria Orfeo torna a dare voce agli ultimissimi, tra ansie di progresso e rimpianto di una bellezza perduta per sempre, in un caleidoscopio di destini irrimediabili, di cui, colpevolmente, ridiamo a crepapelle.
“A chi devo succhiare il cazzo per avere un panino?”: è forse questa la battuta, uno dei tanti irresistibili refrain dello spettacolo, che meglio caratterizza Miracoli metropolitani, nel suo recupero del sermo cotidianus (impossibile non pensare alla raffinatissima scurrilità di Petronio), nell’ossessione per il cibo, e soprattutto nella disponibilità a piegarsi pur di soddisfare un desiderio, anche solo momentaneo.

Come da tradizione ormai consolidata, Gabriele Di Luca, demiurgo di Carrozzeria Orfeo, costruisce la sua narrazione sui nodi relazionali che ingarbugliano personaggi privati di quasi tutto, ma con gli stomaci sempre squassati dai brontolii di una vorace fame di futuro. In una carrozzeria dismessa che è contemporaneamente casa comune e sede di una squallida start up di cucina delivery, Plinio, ex chef stellato ridotto a sfornare pasti bio-gluten free-usa e getta, cerca negli altri la sensibilità necessaria per apprezzare il suo sugo di lepre, mentra la sua compagna Clara, novella locandiera goldoniana, è ossessionata dall’impatto social dell’impresa che ha messo in piedi. Dal primo nodo, che tiene insieme i due protagonisti, si propagano i fili che li intrecciano agli altri personaggi, tra cui spicca Mosquito, rider in libertà vigilata ed ex bullo, il cui sogno di diventare attore è metafora di riscatto per tutti gli ultimi del mondo, per tutti i vinti di verghiana memoria, di cui qui si torna a celebrare il (ri)ciclo. A sconvolgere il precario equilibrio iniziale è Cesare, insegnante il cui passato è segnato da un’immane tragedia, che per errore telefona al centralino degli ordinativi pensando di contattare l’assistenza psicologica per aspiranti suicidi. Intanto, all’esterno, le fogne intasate dall’eccesso di rifiuti esondano nelle strade e le acque fetide, come il limo, fecondano il terreno dell’odio.

Il gioco relazionale nella prima parte dello spettacolo è sostenuto da un ritmo forsennato e da una serie di trovate sceniche che spesso strizzano l’occhio al cinema (basti pensare al carro motore della camera da letto, che avanzando lentamente verso il pubblico ricrea l’illusione dello zoom). Tuttavia dopo quaranta minuti in cui si ride fino alle lacrime, con la netta sensazione di smantellare tutti i tabù del nostro tempo, – dall’odio razziale all’handicap fisico, passando per la pedofilia – lo spettacolo accusa una battuta d’arresto, figlia del profluvio espressivo e tematico, che finisce per rendere ridondanti certe dinamiche di scena, soprattutto a causa dell’assenza di una vera e propria linea narrativa principale (solidissima invece nel precedente Cous cous clan). Patti, madre di Plinio, fricchettona in eterna lotta contro il sistema (impossibile non pensare a Mona, madre di Homer Simpson), dovrebbe esserne l’architrave, ma nei suoi tratti da cliché è forse il meno riuscito tra i personaggi della pièce.
Se lo spettacolo riesce a tirarsi fuori dalla buca il merito è dell’abilità precipua di De Luca nell’architettura delle scene brevi top: è impossibile restare indifferenti all’educazione sentimentale che Cesare, citando Pessoa, impartisce a Igor, figlio disadattato di Clara, così come commuove il resoconto autobiografico della sguattera tuttofare Hope, che si decide ad aprire il suo cuore indurito dalle peripezie che l’hanno condotta lontano dalla sua terra d’origine. Il racconto scivola così verso un finale più corale, in cui, accanto all’inevitabile, “esplosiva” tragedia, sembra esserci ancora uno spiraglio, lercio e polveroso, da cui i desideri possono essere osservati da vicino, sempre nel pieno compimento che il destino drammaturgico ha riservato a ciascuno dei personaggi.

Pur con i suoi difetti, Miracoli metropolitani è uno spettacolo che vince la battaglia del teatro per entrare in contatto con le nuove generazioni, e più in generale con un pubblico per troppo tempo ignorato dalla presunta intellighenzia; i meriti, oltre che nelle parole utilizzate, vanno cercati in una recitazione che fa del tempo-ritmo di ascendenza stanislavskijana una splendida ossessione. Anche nei momenti in cui il flusso narrativo sembra arrestarsi, infatti, gli attori giocano il loro slancio vitale in assoluta libertà, inquilini di un palcoscenico che percorrono da cima a fondo a diverse velocità, senza che affiori neppure il minimo sospetto che magari a qualcuno possa essere pestato, sporgente da una logora ciabatta, il dito di un piede.
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