
L’Eclisse di Antonioni – La sparizione dell’individuo dalle cose del mondo
I titoli di testa de L’Eclisse di Michelangelo Antonioni sono emblematici della poetica che sta alla base di molta della filmografia del maestro ferrarese. Eclisse Twist, incisa da Mina, dirompe in apertura con la sua melodia squisitamente pop per il tempo, e quindi di massa, di consumo e insieme d’evasione. Poi, archi e fiati violenti interrompono la spensieratezza estiva del pezzo, aggravandosi in note di piano abissali e funeree che si assottigliano progressivamente.
I due temi agiscono per opposizione eppure coesistono, così come in L’Eclisse convivono la frenesia entusiasta delle masse e insieme la vertigine angosciosa che si cela nell’individualità dei singoli. Monica Vitti è la musa perfetta, un’attrice in grado di celare l’intenzione all’interno, di monologare silenziosamente con la memoria e i timori del suo personaggio, di farlo superficie di eruzioni emotive inattese, che dirompono come la sinfonia di Giovanni Fusco sul pezzo di Mina.
La sua Vittoria muove la sua solitudine in una Roma ora periferica, ora chiassosamente metropolitana, si innesta nella realtà circostante, la vigila, più che viverla. La sua storia parte dall’apatica fine di un amore, dall’attestazione di un vuoto quindi a cui seguirà, nel suo vagabondaggio, una ricerca di compensazione sotto-testuale. Tra passatempi sciocchi ed ermetiche introspezioni, conoscerà il cinico e vitale Piero, che le darà la sensazione che stia vivendo all’estero.

Gli incontri con Piero, il pomeriggio passato con le amiche a scherzare sulle usanze Kenyote, così come il passaggio alla Borsa di Roma in cui la madre di Vittoria passa le giornate agognando la fortuna, non sono che illusioni di pienezza, inganni travestiti da passatempo, passioni istantanee, predatorie e brutali verso il denaro, l’uomo e le culture straniere. Rispecchiano il ritmo irregolare di una mutevolezza costante, di un’instabilità morale e politica da cui l’individuo si aliena dopo che esservici perso.
Dei tre capolavori che compongono la Trilogia dell’incomunicabilità, L’Eclisse risulta essere la contrapposizione più radicale ai crismi della rappresentazione cinematografica dell’Italia del Boom attuata da Antonioni, per altro uscendo nello stesso anno di un altro ribaltamento narrativo sul tema, Il Sorpasso di Dino Risi. Nell’irrequietezza sterile di un mondo oberato da stimoli fugaci, il sentimento come azione interna è impedito nel suo connettersi alle cose del mondo, nel suo tradursi in risvolti logici e chiari nella realtà.
È quindi nel rapporto tra l’essere umano e il mondo che Antonioni sventra la narrazione della sua connotazione di evento, in favore di uno sguardo all’interno al personaggio, di una concatenazione di pensiero più che di accadimento, per raccontare una crisi psicologica. Il contesto sociale, proprio perché ritratto con un realismo acuto, non è più il luogo dell’ostacolo o del desiderio, perché lontano dalla soggettività individuale di Vittoria, che lo attraversa senza lasciare traccia.

Individuo e contesto scorrono l’uno sull’altro, si attraversano senza mutarsi vicendevolmente, almeno non dichiaratamente. Questo non solo rivoluziona i modi del racconto, ma arriva a scarnificare l’immagine, a renderla evasiva ad ogni forma di significazione. I corpi camminano in una Roma ora desertica e annoiata, ora istericamente affollata, vengono riquadrati dalle geometrie edili di una città in continua mutazione.
Gli ecomostri dell’Eur appiattiti nelle finestre, i tubi metallici agitati dal vento, il cantiere in fieri in cui Piero e Vittoria si danno appuntamento, sono l’attestazione visuale di uno scollamento tra uomo e paesaggio, tra intimo e pubblico. I problemi del mondo evocati dai quotidiani o lamentati dalla madre dopo il crollo azionario, non sono i problemi della protagonista de L’Eclisse e qui risiede la nota più attuale delle schegge esistenziali di Antonioni. La malattia dei sentimenti, l’impossibilità dell’umano di tradursi nel concreto del reale, di interessarsene – temi che in Deserto Rosso (1964) saranno una peculiarità narrativa ancora più prepotente – non sono altro che il confine che separa l’individuo dalla Storia.
Il mondo rapito dalla corsa all’utile, il tempo come prodotto, la speranza isterica dell’Italia della crescita economica sono i quadri grottescamente realistici che Vittoria intercetta nel suo tragitto pensoso e fisico. Il suo, al contrario, è un tempo in-utile, precisamente un ammazzare il tempo in attesa di una passione che la travolga, un legame concreto alla vita. L’annoiata e angosciosa separazione che anima il rapporto tra personaggio e ambiente, in Antonioni, rende le sue protagoniste un osservatorio privilegiato ed esteticamente iper-sensibile da cui cogliere la realtà nei suoi aspetti più umbratili. È così che il dato visuale si concentra sulle restituzioni sensoriali dell’inanimato, sul dettaglio oggettuale, sulla materia come testimone dei tragitti umani, impassibile e immutata.
È in questo modo che l’intimismo della scrittura di Michelangelo Antonioni complessifica e astrae il suo occhio trasparente verso il reale. Quello che alcuni hanno definito Neorealismo Intimista, ne L’Eclisse, ammicca all’iper-realtà nel suo divaricare il visibile attraverso l’interiorità dei personaggi, più angustiata dal particolare trascurabile che dalle sorti del mondo, preludendo a gran parte della filmografia a colori di Michelangelo Antonioni.

Lo sconvolgere l’abitudine dell’intreccio narrativo, il rifuggire la necessità di un senso, di un concatenamento causa-effettistico che ritmi l’azione, non significa abolire la natura terrenamente politica del cinema realista, ma piuttosto espanderla mettendo in discussione le fissità rappresentative del verosimile. Gli ultimi sublimi ed enigmatici sette minuti del film attestano la natura non necessaria del singolo nel mondo.
E’ infatti proprio ne L’Eclisse che Antonioni indaga l’interiorità a costo della sparizione fisica del suo protagonista. L’avanzare disinteressato del progresso retto e funzionale in forma di edilizia, la routinarietà dei passanti anonimi e insondabili, la realtà tutta si disgrega grazie alle prospettive urbane straniate e al montaggio netto e violento. Rimangono i luoghi e gli oggetti che i due amanti hanno incontrato durante il film a testimoniare la loro assenza.
L’individuo attesta la propria sparizione del mondo, il proprio offuscamento, un’eclissi appunto, terrena e non lunare. Proprio per questo i personaggi di Antonioni parlano al presente con puntualità. Sono solitudini non dichiarate, porzioni separate dal proprio habitat che fuggono dal campo senza una meta. Sono figli e più spesso figlie della più affilata delle filmografie umaniste, qui rappresentate dagli occhi inquieti di Monica Vitti, distratti da un pensiero non scritto, nostalgici di una vita mai vissuta.
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