
Le possibilità inesplorate del teatro – Intervista a Fabio Condemi
Fabio Condemi, nato a Ferrara nel 1988, è uno dei più interessanti esponenti della nuova generazione del teatro italiano. Diplomatosi in regia all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico di Roma nel 2015, presenta come saggio di debutto un suo adattamento di Bestia da stile di Pier Paolo Pasolini; già nel 2012 aveva messo in scena uno studio sul dramma Esuli di James Joyce. Nel 2015, in occasione dell’anniversario dei quarant’anni dalla morte di Pasolini ha curato la riduzione radiofonica del Manifesto per un nuovo teatro pasoliniano. Nel 2016 mette nuovamente in scena Bestia da stile di Pier Paolo Pasolini. Nel 2018 una sua versione dello Jakob Von Gunten di Robert Walser debutta alla Biennale Teatro di Venezia. Nel 2019 ha diretto Gabriele Portoghese nel monologo Questo è il tempo in cui attendo la grazia, tratto dai testi poetici e dalle sceneggiature di Pasolini; seguono La filosofia nel boudoir, tratto dal controverso testo del marchese De Sade e anch’esso presentato a Venezia, e Nottuari, ispirato alle opere dello scrittore weird contemporaneo Thomas Lingotti.
A livello teatrale, quali sono i tuoi principali riferimenti, tanto come registi quanto come drammaturghi?
Rispondere a questa domanda è complesso per me, ma credo sia una bella complessità e vorrei cercare di analizzarla. Ci sono stati i miei insegnanti alla Silvio d’Amico, l’accademia nazionale d’arte drammatica. Sono passati pochi anni da quando la frequentavo e, ricordando quelle lezioni, le aule del palazzo in via Bellini con i loro muri logori e le grandi finestre che si affacciano sulla rumorosissima piazza Verdi, provo una grande nostalgia e mi sembrano le buone cose di pessimo gusto cantate da Gozzano. Poi ho iniziato a fare da assistente a Giorgio Barberio Corsetti. Giorgio è stato un incontro fondamentale per me, umanamente e artisticamente e con lui ho sperimentato un modo di fare teatro, di pensare il teatro, esaltante e estremamente disciplinato allo stesso tempo.
Come spettatore quali sono i tuoi principali interessi?
Come spettatore ho interessi molteplici. Da ragazzo ho conosciuto il teatro in video – Eduardo, Carmelo Bene, i video della tragedia endogonidia della Societas Raffaello Sanzio, i rari video di Leo de Berardinis… – e devo ammettere che non conservo un ricordo particolare di una serata a teatro. Tra gli spettacoli visti dal vivo che hanno cambiato il mio sguardo di spettatore ci sono Castellucci, Marthaler, Ronconi, Carlo Cecchi e tanti altri. Mi colpisce sempre come uno spettacolo si attacchi alla memoria in modo anarchico e inaspettato e cerco di pensarci quando faccio una mia regia. Tutti questi incontri, i maestri, il teatro visto dal vivo, il teatro visto in video, le centinaia di ore in Accademia e le giornate passate ad ascoltare dei cantanti che provano la Sonnambula di Bellini formano la mia esperienza di spettatore e credo sia un’esperienza ricca e varia ma anche bulimica. Quello che più conta per me, però, è sempre cercare di svuotare la testa e provare a ragionare sulla regia, sulla drammaturgia, sulle immagini senza partire da dei riferimenti.

Durante il tuo percorso ti sei più volte interfacciato con l’opera, con gli scritti e con i film di Pier Paolo Pasolini. Quali sono stati i principali insegnamenti teatrali e scenici che hai tratto dall’opus pasoliniano? Pensi che il tuo confronto con Pasolini possa essersi concluso con Questo è il tempo in cui attendo la grazia, o ci sono altre parti della sua opera che in futuro potresti portare a teatro?
Nel 2015 ho messo in scena, come saggio di diploma in Accademia, Bestia da stile, un testo teatrale di Pasolini, nel 2019 ho messo in scena Questo è il tempo in cui attendo la grazia, un lavoro tratto dalle sue sceneggiature cinematografiche e, nel 2022, in occasione del centenario dalla nascita di Pasolini, ho messo in scena il suo testo teatrale Calderon, una riscrittura pasoliniana de La vita è sogno di Pedro Calderón de la Barca. Ogni volta che mi trovo a studiare e a mettere in scena Pasolini sono felice. Credo sia una sfida estremamente stimolante per un regista. Credo anche che Pasolini, il suo cinema, i suoi scritti, i suoi versi, sia presente anche in altre mie regie non pasoliniane. Per esempio quando ho messo in scena de Sade ho riletto Orgia e ho rivisto Le centoventi giornate di Sodoma.
Il tuo percorso teatrale sorprende perché è composto interamente da adattamenti, ma per lo più di autori stranieri e/o di testi originariamente non destinati al teatro. Da dove nasce il tuo interesse per gli adattamenti e, parlando in generale, quali sono le motivazioni che ti spingono a prediligere un autore piuttosto che un altro?
È difficile per me rispondere a questa domanda. Se metto in fila il mio lavoro fino ad ora mi accorgo che ci sono dei temi ricorrenti, delle immagini che infestano le mie regie anche contro la mia volontà. Non parto mai con l’idea di adattare un testo, di illustrarlo. Mi interessano gli spazi vuoti, le connessioni inaspettate tra il testo che sto studiando e le immagini che compaiono sul palco. Spesso rileggo la lezione americana di Calvino sulla molteplicità perché credo che a teatro questa parola importantissima sia un faro da tenere sempre presente per alzare l’asticella, sorprendere e sorprendermi.

Portare a teatro un’opera in prosa tanto di Robert Walser quanto e a maggior ragione del marchese De Sade poteva sembrare un azzardo: cosa ti ha spinto verso questi due autori e in che modo hai impostato gli adattamenti dello Jakob von Gunten e della Filosofia nel boudoir?
Per me questi due lavori formano una sorta di dittico che ha come centro l’educazione o meglio la diseducazione. Entrambi i testi mettono in discussione gli automatismi, il buonismo, la retorica del mondo occidentale. In Walser il protagonista impara a diventare “uno zero tondo come una palla” andando contro l’idea che nella vita si debba diventare “qualcuno”. In de Sade Eugenie, la protagonista, arriva ai limiti estremi dell’illuminismo, come avevano notato Horkeimer e Adorno, dove la ragione e il crimine coincidono. L’opera di de Sade rappresenta l’altra faccia del mondo moderno, che è nato con la rivoluzione francese. Per metterla in scena ho letto molto Bataille, Barthes, Simone de Beauvoir e, come già detto, Pasolini.
I tuoi spettacoli spesso ricorrono ad inserti video e alla proiezione di diapositive da parte degli stessi attori in scena. Da cosa nasce questo tuo bisogno di espandere visivamente la scena? In generale, come regista teatrale, quanto ti senti influenzato dal cinema e dall’audiovisivo in termini di immaginario?
Decisamente. Quando preparo un nuovo lavoro penso tanto al cinema. Se penso ad altri spettacoli teatrali, anche a spettacoli che amo, finisco per bloccarmi e inibirmi. Ragiono spesso pensando per inquadrature e soprattutto mi interessa il termine montaggio. Ho dei registi cinematografici a cui ritorno spesso: Joao Cesar Monteiro, Luis Buñuel, Jonas Mekas, Jean Vigo, Peter Greenaway, i fratelli Marx. Le sceneggiature di Pasolini, che ho utilizzato in Questo è il tempo in cui attendo la grazia, sono cinema d leggere, cinema fantasma che si crea solo nella mente del lettore. Questo materiale che ricorda la tecnica dell’ecfrasi mi interessa molto e mi sembra estremamente teatrale perché consente agli spettatori di riempire dei vuoti e creare associazioni inaspettate.

Come sei venuto a conoscenza dell’opera di Thomas Ligotti e quali elementi della sua narrativa ti hanno spinto a vederci un potenziale drammaturgico alla base?
Conservo un ricordo molto preciso della prima volta che ho cercato un suo testo in libreria: ero a Pesaro per Natale e sentii il bisogno di trovare un libro che mi facesse compagnia nelle giornate restanti di vacanza, prima del mio rientro a Roma. Un giorno un mio amico mi parlò di un particolarissimo autore di “horror contemporaneo” che riusciva a mescolare terrore e filosofia e mi disse di essere rimasto decisamente disturbato da alcuni suoi racconti. Appena uscito dalla casa del mio amico appuntai il nome di quello scrittore sul dorso della mia mano, attraversai le vie del centro storico e mi diressi verso una piccola libreria che si trova nei pressi dei musei civici. Ogni tanto, nel tragitto, rileggevo, per non scordarlo, il nome scritto a penna, in stampatello sotto le mie nocche: THOMAS LIGOTTI. Chiesi al libraio se avesse uno dei suoi libri e lo feci con la spocchia di chi si crede un pioniere letterario, un esploratore solitario degli angoli più reconditi della letteratura. Il libraio, avendo notato la suddetta spocchia, mi rivolse un sorriso dolciastro, prima di scomparire silenziosamente tra gli scaffali e le pile di libri che saturavano il negozio. Rimasi solo per qualche istante e provai uno strano brivido. Stavo per addentrarmi in quello che molti descrivono come “il segreto meglio custodito della narrativa horror contemporanea” e le mie aspettative erano alle stelle. Il libraio tornò con in mano un bel volume del Saggiatore: “in libreria c’è solo questo al momento, gli altri suoi li abbiamo terminati”. Capii che l’autore che stavo “scoprendo” non era poi così sconosciuto. Permaneva, comunque, il brivido di un incontro speciale e la copertina del libro che avevo in mano accese ancora di più la mia curiosità.
Cosa mostrava quella copertina?
Non c’erano rappresentati mostri, quadri espressionisti, animali notturni o strane case diroccate. C’era invece la foto di una performance di Olivier de Sagazan. Un uomo, lo stesso de Sagazan, in camicia bianca colto in una posa sospesa, piena di grazia e inquietudine al tempo stesso, una sorta di insetto che sta aprendo le ali prima di librarsi in volo. La sua camicia, imbrattata di schizzi di colore, sembrava un quadro di Jackson Pollock e il suo viso era un ibrido stranissimo: i tratti del volto umano cancellati da una maschera di creta, stracci e paglia che trasformavano quell’ essere umano in un disturbante pupazzo. Sembrava un essere in preda a una metamorfosi: un pupazzo che diventa un uomo o un uomo che diventa un pupazzo? Misi il libro nello zaino e riattraversai il centro di Pesaro diretto verso casa. Si era fatto tardi, le lucine natalizie fluttuavano in una nebbia densissima, i vicoletti del centro si confondevano in quell’atmosfera irreale e io non vedevo l’ora di aprire lo scrigno di orrori che avevo dentro lo zaino. La cosa più sorprendente però, fu che quei racconti, sulle prime, delusero le mie aspettative.

Come mai?
Quello che chiedevo a Ligotti era di ricoprire un ruolo, in fondo estremamente consolatorio: quello di spaventarmi, possibilmente più di altri scrittori, di intrattenermi dandomi qualche brivido. Ben presto mi resi conto che la scrittura di Ligotti viaggia in direzione diametralmente opposta a quella dell’intrattenimento. Lo scrittore che avevo sotto gli occhi non aveva nessuna intenzione di spaventare chi legge creando una sorta di catarsi consumistica: il piacere del terrore, l’industria del terrore in cui si paga per essere spaventati come quando si entra nella casa infestata dei luna park. La scrittura di Ligotti si situa, invece, là dove cessa ogni rappresentazione, smonta gli ingranaggi delle case infestate e ci accompagna in un tour delle rovine di un luna park la cui architettura si è ormai confusa con il paesaggio circostante e in cui si scorgono i mostri ma anche gli ingranaggi arrugginiti che li muovono. Insomma, Ligotti non vuole dare spettacolo ma inquietare la realtà, insinuandosi in delle zone della mente che hanno a che fare con l’incubo, con la memoria, con la fragilità del nostro stare al mondo.
Da quali scritti di Ligotti hai effettivamente attinto i diversi “episodi” che compongono Nottuari?
In Nottuari ho utilizzato vari testi di Ligotti, e anche di altri autori. Le due rame principali che si intrecciano sono tratte dal racconto La Medusa e dal racconto Luna park e altre storie. Nella drammaturgia sono entrate anche delle pagine di Allucinazioni di Oliver Sacks, un esperimento sulla coscienza e sulla percezione tratto da un libro scientifico e delle riflessioni su terrore e bellezza di Jean Clair. Mentre preparavo lo spettacolo ho anche letto Casa di Foglie di Danielewski e i racconti di Tommaso Landolfi, e ho rivisto Don’t Look Now di Nicolas Roeg e L’inquilino del terzo piano di Polanski. Credo che tutte queste tracce compongano la drammaturgia di Nottuari. L’idea non era illustrare ma entrare nella scrittura di Ligotti e restituirne la complessità.
Come si è svolta la concezione delle scenografie e del disegno luci che accompagnano lo spettacolo?
Durante le prove abbiamo riletto diverse volte un capitolo di Allucinazioni di Oliver Sacks dal titolo Sulla soglia del sonno. Sacks analizza casi di pazienti afflitti da allucinazioni ipnagogiche. Le descrizioni fatte da quei pazienti (voci scorporate, visione di sosia, spazi claustrofobici, suoni decontestualizzati) ci hanno fatto capire che tipo di spazio e di distorsione cercare per la messa in scena. Io e Fabio Cherstich abbiamo fatto una lista di artisti, film e installazioni utili al lavoro: le case/installazioni di Gregor Schneider, il film Institute Benjamenta dei fratelli Quay, i manichini che gli attori della Classe morta di Kantor portano sulle spalle come fossero funghi, il film Le armonie di Werkmeister di Bela Tarr, i quadri di Magritte, la scena nel Club Silencio di Mulholland Drive, le sculture cinetiche di Rosa Barba, il corridoio interminabile nel romanzo Casa di foglie di Danielewski, le veneri anatomiche di Clemente Susini (statue di cera di ‘scomponibili’ che rivelano le interiora di una bellissima donna sdraiata), le sculture sonore di Alberto Tadiello, le installazioni di Heiner Goebbels, i loop ipnotici di William Basinski, le architetture labirintiche e paradossali di Escher, le fotografie di Crewdson etc. Questa lista ci è servita per organizzare la drammaturgia e ragionare su slittamenti costanti tra interno ed esterno che destabilizzassero la percezione degli spettatori. Il lavoro inizia con una scritta sullo schermo che chiama in causa direttamente lo spettatore dandogli del tu, e da quel momento inizia un gioco sottile tra il pubblico e la scena sul tema del guardare che attraversa, come un fiume sotterraneo, tutto lo spettacolo.
In termini produttivi, nello scenario italiano contemporaneo lavori come La filosofia nel boudoir o Nottuari hanno difficoltà a inserirsi oppure hanno trovato immediatamente una collocazione? Il teatro italiano contemporaneo quanto ti sembra aperto – a livello di critica, di istituzioni e di pubblico – a sperimentazioni drammaturgiche e visive di questo tipo?
Devo molto ad Antonio Latella che mi ha invitato alla sua Biennale Teatro con due spettacoli: Jakob von Gunten e La filosofia nel boudoir. Portare prima Walser e poi de Sade in Biennale è stata una scommessa ma credo che valga la pena rischiare perché il teatro ha delle possibilità immense che sono state esplorate solo superficialmente. Questo lo penso io ed è un pensiero che mi esalta e mi affossa al tempo stesso.
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