
Stranizza d’Amuri – Questa febbre nelle ossa
“Man manu ca passunu i jonna
Sta frevi mi trasi ‘nda ll’ossa
Ccu tuttu ca fora c’è ‘a guerra
Mi sentu stranizza d’amuri”
– Franco Battiato, Stranizza d’amuri
Iniziamo questa recensione partendo dalla fine: il 31 ottobre 1980 a Giarre, un piccolo paese della Sicilia, furono trovati i corpi senza vita di due ragazzi, Giorgio e Antonio, mano nella mano e uccisi da due colpi di pistola alla testa; è sulla base di questo epilogo che Giuseppe Fiorello ricostruisce (adattando, modificando, spostando) il racconto della storia d’amore dei due ragazzi in un film, Stranizza d’amuri, che è passato nelle sale italiane dal 23 marzo.

Stranizza d’amuri è la prima volta per Fiorello come regista, eppure si tratta di un film già maturo ed equilibrato, misurato nel ritmo e potente nell’immaginario che evoca. Si prende tutto il tempo necessario per raccontare il primo nascere dell’amore, utilizzando una grammatica visiva classica che esalta gli sguardi, le esitazioni e il magmatico scorrere di gesti e occasioni condivise. Il film cammina costantemente sul filo rischioso del melò (vedi, ad esempio, Estate ’85 di Ozon), ma riesce sempre – e con grazia, con tenerezza – a non cadere nel retorico, nel patetico fine a sé stesso: per un esordio alla regia, non è poco.

Tutta l’esperienza di Giuseppe Fiorello come attore si percepisce forte e chiara nella direzione dei protagonisti: tra Gabriele Pizzurro (Nino) e Samuele Segreto (Gianni) nasce un’alchimia forte e spontanea che coinvolge senza sforzo lo sguardo dello spettatore, una sintonia che esonda fuori dai confini delle scene e permea come un’aura tutto il tono del film. Il suo centro di gravità, infatti, è proprio questo amore che splende come un corpo celeste, stella sola in un firmamento ostile, oggetto fragile che sembra destinato a sparire da un momento all’altro e che però si ostina, non riesce a smettere di brillare nonostante gli venga costantemente negato uno spazio in cui sopravvivere. Questo amore cerca una possibilità di riconoscimento all’interno di una società materna e passionale verso ciò che conosce, ma spietata verso ciò che ancora non comprende. Quella possibilità, a Nino e Gianni non viene data: forse perché i tempi non erano ancora maturi, forse per la responsabilità di quelle persone che avrebbero dovuto saperli amare senza condizioni.

Stranizza d’amuri riesce benissimo a far vivere allo spettatore la sensazione del rimpianto, l’amarezza del reale che entra sottopelle e resta lì a bruciare come una ferita mai chiusa. Di fronte agli eventi raccontati, inevitabilmente ci si domanda come sarebbero potute andare le cose, in un posto e in un tempo diversi. È qui che il film lavora e scava: nella sottile fessura immaginativa tra la vita reale e le vite possibili. Nei suoi Frammenti di un discorso amoroso, Roland Barthes parla del modo in cui l’innamorato vive la memoria e arriva a capire che il tempo del ricordo amoroso è l’imperfetto; chi ama, ricorda «pateticamente, puntualmente, e non filosoficamente, discorsivamente», cioè ricorda solo «per essere infelice/felice – non per capire» (Einaudi 2014, p.169). Ecco, Stranizza d’amuri è un film tutto all’imperfetto, il tempo sospeso e mancante, incompiuto per definizione. C’è però anche un’intenzione diversa: Fiorello infatti non cade nel rischio dell’innamorato e fa fruttare il ricordo in modo critico. È lì che il racconto diventa, se non strettamente politico, di certo civile: ci coinvolge tutti nella memoria bruciante di quei fatti, in una responsabilità collettiva che ancora oggi si fatica ad ammettere.

Tutto il film è attraversato da una serie di sguardi obliqui sul possibile mancato: volti riflessi in specchi o specchietti, momenti “vuoti” di contemplazione e rimpianto per ciò che non si potrà mai vivere. Se la regia qui indugia, è per dare valore a questi istanti insignificanti ma essenziali in cui si condensa – tornando a Barthes – il “tempo ritrovato” degli innamorati. Parallelamente, Stranizza d’amuri vive anche in tutto ciò che lascia immaginare allo spettatore: l’amore di Gianni e Nino è fulmineo, brevissimo come una notte d’estate; tutto il resto, lo immaginiamo. E immaginandolo, acquista potenza e mistero, acquista vita.

Tutti questi discorsi culminano – quasi per paradosso – nel primo breve e bellissimo teaser trailer del film, che include scene poi assenti dal montaggio definitivo. Il trailer – secondo le categorie coniate da Gérard Genette – è parte del paratesto: è autonomo, sta sulla soglia dell’opera ma in questo caso è essenziale per il racconto, perché si colloca appena prima o forse appena dopo la sequenza finale. E se Stranizza d’amuri è tutto all’imperfetto, questo piccolo teaser è invece al condizionale: racconta un istante della relazione tra Gianni e Nino, uno dei pochi momenti davvero spensierati e sereni, una corsa in motorino mentre lungo la strada risuona la voce di Battiato. I due corrono felici e liberi: era questo, forse, il loro vero rimpianto, era questo l’epilogo che i due ragazzi sognavano e non hanno potuto vivere. Di certo è l’epilogo che avrebbero meritato, la giusta conclusione della loro storia: è quello che avrebbe potuto essere, e resta solo un’immaginazione dolceamara (ma luminosissima) dopo il silenzio e il nero della pellicola.
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