
Come se reale e immaginario si inseguissero a vicenda – Antonioni secondo Deleuze
Michelangelo Antonioni non ha bisogno di presentazioni: nato nel 1912 e morto nel 2007, è tradizionalmente considerato, accanto a Federico Fellini, il più importante regista italiano del Novecento. Premio Oscar alla carriera nel 1995, unico regista ad aver vinto Leone d’Oro (Deserto Rosso), Palma d’Oro (Blow-up), Orso d’Oro (La notte) e il Pardo di Locarno (Il grido), Antonioni ha innovato il cinema sia dal punto di vista tematico che dal punto di vista tecnico, aprendo la settima arte alle suggestioni dell’esistenzialismo filosofico e letterario, e affermandosi come un apripista nell’utilizzo creativo del colore e, successivamente, anche nelle sperimentazioni con il digitale. Proprio in virtù della grande stratificazione linguistica, concettuale e tecnica che caratterizza tutti i suoi film sin dall’esordio Cronaca di un amore del 1950, il cinema di Antonioni ha attratto l’interesse di personalità spesso completamente avulse dal mondo del cinema: amico di Alberto Moravia, corrispondente di Mark Rothko, Antonioni fu al centro di uno dei più bei testi brevi del semiologo e critico francese Roland Barthes, e attrasse l’interesse anche di un altro grande maître à penser della Francia del Novecento, Gilles Deleuze.

Gilles Deleuze è stato uno dei più originali e controversi filosofi francesi del secolo scorso: le sue due opere maggiori, scritte in collaborazione con lo psicoanalista eterodosso Felix Guattari, uscirono nel post-Sessantotto cercando di formulare una filosofia della molteplicità e riaggiornare Spinoza alle sfide del XX secolo, criticando nel contempo la psicoanalisi freudiana; ma Deleuze fu sempre filosoficamente attratto anche dalla letteratura e dalle arti, e dedicò importanti monografie alle opere di Francis Bacon, Marcel Proust, Hermann Melville e Franz Kafka. Negli anni ottanta la sua attenzione fu bruscamente attirata dal cinema, e Deleuze diede alle stampe, tra il 1983 e il 1985, due tomi di una “tassonomia cinematografica”, L’immagine-movimento e L’immagine-tempo. Se già abbiamo parlato dell’analisi che Deleuze propose del cinema e del teatro di Carmelo Bene, tra L’immagine-tempo e il più coinciso Sovrapposizioni, anche le pagine che il francese dedicò al cinema di Antonioni, soprattutto ne L’immagine-tempo, risultano epifaniche per capire il posto di Antonioni nella storia del cinema, le innovazioni che il regista ferrarese apportò rispetto al Neorealismo da cui pure proveniva, e l’irriducibile originalità del suo pensiero filmico.
Una delle tesi portanti del discorso deleuziano sul cinema è che il Neorealismo, rispetto al cinema tradizionale, aveva comportato una rivoluzione narrativa, strutturale e anche ottico-sonora: il personaggio veniva ridotto a una specie di a una specie di spettatore passivo che “più che reagire registra”, e, da questo punto di vista, anche registi come Antonioni e Fellini appartenevano ancora e pienamente al Neorealismo italiano. Fellini e Antonioni agli occhi di Deleuze si oppongono: l’uno è un rappresentante di un “soggettivismo complice”, empatico con i suoi personaggi, l’altro di un “oggettivismo critico”. Antonioni e Fellini però abbandonano quella tendenza iper-sociologica del Neorealismo classico, l’ambizione di lanciare messaggi che risuonassero anche come appelli morali, per ricostruire umanamente e politicamente l’Italia nell’immediato dopoguerra. Conseguenza di ciò è un netto aumento dell’introspezione: “questo neorealismo senza bicicletta sostituisce l’ultima ricerca di movimento (la ballata) con un peso specifico del tempo che si esercita all’interno dei personaggi e li mina dal di dentro (la cronaca)” – e qui il riferimento è al primo film di Antonioni, Cronaca di un amore appunto. Con i suoi film si delinea davanti agli occhi dello spettatore “un intero mondo di cronosegni, sufficiente a far dubitare della falsa evidenza secondo la quale l’immagine cinematografica è necessariamente al presente”.

Arriviamo così al tratto più specifico del cinema di Antonioni, alla sua rivoluzione stilistica forse non ancora colta a dovere: assorbire, non solo nella sceneggiatura ma nello stile stesso di ogni suo film, il mondo interiore dei protagonisti. “L’Antonioni colorista saprà trattare le variazioni di colore come dei sintomi e la monocromia come il segno cronico che invade un mondo, grazie a tutto un gioco di modificazioni deliberate” – si pensi alle colorimetrie innaturali del Deserto Rosso – “ma già Cronaca di un amore rivela un’’autonomia della cinepresa’, quando rinuncia a seguire il movimento dei personaggi o a dirigere il proprio movimento su di essi, per operare continuamente delle reinquadrature come funzioni di pensiero”.
Re-inquadrature come funzioni di pensiero: pur trattando il cinema di Antonioni per sommi capi, dovendo rispondere a un progetto di topologia dell’immagine filmica in generale, Gilles Deleuze coglie un punto decisivo, per certi versi molto più importante della tematica dell’alienazione che pure ha polarizzato l’attenzione critica sul cinema antonioniano. Antonioni tendeva notoriamente alla sequenzialità di campo, e quanto più matura il suo stile registico, tanto più Antonioni dirigerà le sue inquadrature in un’accezione non solo emotiva, o espressiva, o drammaturgica, ma tout court concettuale. Per dirla con Deleuze, i suoi campi lunghi e i suoi movimenti di macchina accompagneranno non solo i movimenti fisici dei personaggi nello spazio, ma anche i loro movimenti interiori. Si arriva così a un’immagine che è al tempo stesso una produzione di senso, interamente figlia della tecnica cinematografica.

L’esempio forse più significativo di questa tendenza del cinema antonioniano sta nel grandioso piano sequenza finale di Professione: Reporter: dopo una lunga fuga tra il deserto africano, il grigiore di Londra e di Monaco e le architetture sinuose di Barcellona, un reporter che ha assunto incautamente l’identità di un trafficante di armi si ritrova assieme alla sua amante in uno squallido motel dell’Andalusia. Sente la morte avvicinarsi, i rivoluzionari africani che gli stanno dando la caccia per una mancata consegna di armi sono sempre più vicini: mentre lui resta, impassibile e quasi mantegnano, sdraiato sul letto del motel, la macchina da presa traccia un interminabile giro, esce dalla stanza attraversando – in un movimento apparentemente impossibile – le grate della finestra, scruta la piazza antistante il motel e poi torna indietro verso la camera di Locke, che troviamo già morto, ucciso da una pistola al silenziatore. Se nella passività Deleuze riconosceva il tratto caratterizzante di tutti i grandi protagonisti del Neorealismo dalla Bicicletta in giù, e vedeva in esso anche la rivoluzionaria differenza rispetto al Realismo tradizionale, in Reporter Antonioni incaglia una contraddizione dell’azione – una contr’azione, verrebbe da dire, e non solo per gioco di parole. E quel piano sequenza finale esprime, con una fermezza sinistra, il momento stesso della morte di un uomo, la fredda exstasis di un’anima che abbandona il corpo.
Il piano sequenza finale di Professione: Reporter non è che la radicalizzazione di una tendenza innata del cinema antonioniano: già nel suo film d’esordio Cronaca di un amore un complesso piano sequenza quasi circolare esprimeva la perenne esitazione dei due protagonisti, incapaci di decidere se commettere o meno un omicidio; allo stesso modo al termine de Il grido il suicidio del protagonista Aldo era raccontato da un’altra “cattiva circolarità” della macchina da presa, perfettamente simmetrica all’itinerario senza meta nella campagna emiliana che l’operaio aveva tentato per liberarsi del suo passato, per poi tornare, a morire, nel suo paese natale.

La macchina da presa non può e non potrà mai entrare dentro la mente di un personaggio, come fece Joyce con le parole; può però proiettare ed estraniare nello spazio il vissuto e la percezione interiore dei suoi protagonisti, fino ad assumere, rispetto al suo sguardo, un rapporto mimetico, come accadrà in modo specifico e consapevole dal Deserto Rosso in poi. Blow-Up implicherà un ulteriore passaggio concettuale, in questo discorso sull’oggettivo e sul reale: e dopo gli onirismi di Zabriskie Point, si arriva a Professione: Reporter, crocevia e conclusione di tutto il discorso filmico che Antonioni aveva condotto, sul crinale fra oggettività e soggettività.
Già nelle primissime pagine de L’immagine-tempo, nel capitolo di apertura intitolato Al di là dell’immagine-movimento, Deleuze scriveva che nel cinema di Antonioni “anche la distinzione tra il soggettivo e l’oggettivo tende a perdere importanza a mano a mano che la situazione ottica o la descrizione visuale sostituiscono l’azione motoria. Si cade infatti in un principio di indeterminabilità, d’indiscernibilità: non si sa più quel che nella situazione è immaginario o reale, fisico o mentale, non perché li si confonda, ma perché non si deve saperlo e non è più nemmeno il caso di domandarlo. È”, concludeva il filosofo, “come se reale e immaginario si ricorressero a vicenda”. Forse è questo il punctum del cinema di Antonioni, forse è da questa commistione che prendono le mosse le sue inquadrature.
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